Il governo cade e con lui crolla anche l’esperimento più punk dell’Occidente: un mix di sovranismo, populismo e cannoneggiamento dello “star system” del politically correct come non si era mai visto. Per questo si è trattato di un’esperienza largamente osteggiata e guardata con sospetto, quando non con fastidio, dalla politica classica, quella legata alle prassi istituzionali ed al bon ton delle cancellerie di tutta Europa. Certamente non era il governo perfetto, ma ciò conta poco. È stato un tentativo di cambiare, fondato sull’idea di scardinare gli schieramenti classici. Forse era già nato zoppo, quando il Colle aveva impedito la nomina di Paolo Savona al Ministero dell’economia: basti ricordare come il Movimento 5 stelle aveva paventato un referendum per uscire dall’euro e la Lega è stata da sempre anti moneta unica. E Savona rappresentava la facciata dottrinale ed accademica di quelle tesi.

La rivoluzione italiana era così già morta in partenza e le sue esequie sono state celebrate con la nomina del prof. Giovanni Tria al Mef. Adesso si assiste ad un ritorno al passato: governi balneari, nuove formazioni politiche che sanno di jurassico (il centrodestra classico e la mai maturata consonanza tra Pd e M5s, le correnti nel Pd) giochi di palazzo e leaders che rinascono nel caldo d’agosto del 2019. Tra la fine genetica della rivoluzione (con la giubilazione di Savona) e la caduta del governo c’è stato un anno di riforme originali, fatte di mini flat tax e reddito di cittadinanza, blocchi dei porti e Tav. Il tutto tra scontri continui tra gli alleati che, in questo gioco, hanno distrutto ogni forma di opposizione possibile, atteso che i pro ed i contro ai vari provvedimenti erano coperti proprio dai firmatari del contratto di governo. Così accontentando, nella dialettica interna ai gialloverdi, tutta l’offerta politica in campo. Anche in questo Lega e M5s hanno rappresentato un unicum, in Italia come altrove.

Ed allora c’è da chiedersi il motivo della rottura. Forse molto è stato causato dal voto europeo che ha ribaltato i valori tra le due forze di governo, pur mantenendo, nel Parlamento italiano, i numeri del quattro marzo. Può essere questa la causa della rottura (si dice che Salvini abbiamo voluto andare all’incasso dei consensi), ma ritengo che questa sia una motivazione troppo anti-rivoluzionaria, esageratamente legata a schemi del passato. La mia idea è che la fine dell’alleanza stia tutta all’interno della esuberante contemporaneità del linguaggio che le due forze politiche adottano e che è la loro vera essenza. Un’essenza radicalmente extraparlamentare e come tale profondamente movimentista.

Sia la Lega che i Cinque stelle fanno della loro forza l’eterna conflittualità verbale contro tutti. Questa neo-lingua politica necessita di un quotidiano rinnovamento lessicale, perennemente e senza sosta proiettato fuori dalle aule della democrazia (Camera e Senato). L’essenza dei due partiti vive e cresce nelle piazze virtuali (i social network) e le piazze fisiche debbono essere costantemente stimolate emotivamente come ad un concerto rock. Senza questo perenne innesco Lega e Cinque stelle muoiono.

Il Movimento si è sempre più legato alle figure di governo (Giuseppe Conte e Luigi Di Maio) tentando di “normalizzarsi” e per questo è stato battuto alle europee (oltre che nelle consultazioni locali italiane degli ultimi mesi) ed ha fatto gridare ad Alessandro Di Battista la necessità di riprendere a sognare, cioè ad agitare le folle con idee sempre innovative.

Dall’altro lato Matteo Salvini ha invece alzato, giorno dopo giorno, il tiro su due o tre argomenti fissi ed insistendo a tal punto da non avere più cartucce, se non quella di far saltare tutto. Mancava solo questa ultima forma comunicativa e, da comunicatore extraparlamentare di altissimo spessore, il capitano ha colto (naturalmente) che il nuovo “spot” possibile sarebbe potuto essere solamente la fine degli spot, o meglio, lo spot finale.

E così ha fatto. In un momento particolare, anzi particolarissimo: dopo aver piegato i Cinque stelle anche sulla Tav e prima della pausa estiva. Perché non può esserci pausa; la raffica extraparlamentare non può consentire pause, men che meno riflessione. Salvini ha interpretato perfettamente lo spirito dei social network, della rete, del mondo “tutto merce”, del post continuo e compulsivo: non è possibile fermarsi, neppure un attimo, neppure pensando al domani. Tutto è oggi, anzi, tutto è e deve essere adesso. Il mondo contemporaneo, come definito da un filosofo ottimo interprete dei nostri giorni (Diego Fusaro) è caratterizzato dall’uomo “senza tempo” cioè senza proiezione verso il domani. L’uomo di oggi è frenetico, onnivoro di presente, così trovandosi in un eterno adesso che non può smettere per nessuna ragione a far sentire il suo battito.

La politica ha la medesima necessità: un giorno di attesa può logorare, una settimana può essere un tempo da era geologica. In un batter di ciglio si può essere surclassati da nuove comunicazioni altrui o dalla ripetizione delle proprie. La realtà del virtuale è l’esigenza di esser-ci in ogni attimo, in ogni istante, rinnovando continuamente l’immagine, senza che questa sia realmente diversa dalla precedente, ma semmai che venga percepita come più emotivamente vertiginosa (per citare Jean Baudrillard). Tutto questo ad ogni costo, anche rischiando di trovarsi nelle sabbie mobili della politica tradizionale o di far resuscitare personaggi che ormai erano dati da tutti per politicamente superati (o che lo stesso leader della Lega aveva sapientemente incelofanato e affidato alla storia d’Italia).

Non sono stati i Cinque stelle, nati campioni della rete e del movimentismo di piazza, a far saltare il governo; ma lo spirito salviniano è il loro stesso spirito, almeno all’origine. Verrebbe da dire che, da neofiti della politica (in specie di governo) i Cinque stelle abbiano studiato troppo i regolamenti di palazzo, perdendo, come lamentato da Di Battista, l’aura rivoluzionaria che li ha da sempre contraddistinti. Tutta questa forza extraparlamentare è stata assorbita da Salvini. Il capo della Lega non ha battuto gli alleati di governo sui provvedimenti o sulle strategie politiche; ha saputo divorarne lo spirito, avendo lo stesso spirito.

La sconfitta dei rivoluzionari gialloverdi sarà comune ad entrambi e tangibile per tutti non dall’esito della crisi, dalla scelta di andare al voto oppure di creare un governo di transizione, ma dalla possibilità che il Leviatano, risorto dalle ceneri della seconda Repubblica (impersonato dal centrodestra e dal centrosinistra) fagociti la loro anima extraparlamentare e da Italexit (non solo dall’Europa, ma dal palazzo coi suoi veti e giochi di potere). Hanno saputo, all’origine, essere radicalmente contemporanei (e dunque un po’ “fuori posto”). Adesso rischiano di diventare un carillon che risuona a tutte le ore la stessa melodia, senza riuscire ad elaborare il lutto di aver perso l’occasione di governare utilizzando la lingua extraparlamentare che tanto si confaceva al loro spirito punk.

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