Parlare di Turchia con toni critici non è sempre facile. Professori, analisti e politici – al di là dei casi di convenienza e di interessi personali – hanno subito, e forse subiscono ancora, il fascino del fu Paese moderatamente islamico. Il Paese, ponte tra Europa e Asia, che poteva dialogare col Medio Oriente e allo stesso tempo avvicinarsi alla laicità dell’Occidente. I primi contatti risalgono agli anni Sessanta, con la Comunità economica europea (CEE). Finché, nel 2005, i negoziati vengono ufficialmente avviati, con un José Manuel Barroso – allora presidente della Commissione europea, entusiasta. A rileggere le dichiarazioni di allora, sembra che l’ingresso nell’Ue sia solo questione di dettagli ma la trattativa, nonostante il beneplacito di George Bush, Jacques Chirac, Tony Blair e Silvio Berlusconi, rallenta fino a perdersi lungo un binario morto.
In mezzo, le crescenti tensioni nella questione cipriota, le violazioni dei diritti umani ai danni dei curdi (con un duro giudizio del Tribunale permanente dei popoli nel marzo del 2018), l’alleanza dell’Akp di Recep Tayyp Erdogan con i fratelli musulmani (e relativi finanziamenti), la raffica di arresti e la restrizione delle libertà civili dopo il fallito golpe del 2016 e, infine, il sodalizio sempre più stretto con la Russia (vedi l’arrivo dei missili del sistema di difesa S-400).
Ma Ankara sta giocando una partita decisiva nella peggiore guerra del secolo, cioè quella siriana. Che in otto anni, dagli albori delle sollevazioni popolari di Deraa contro il regime di Bashar al-Assad, ha causato più di mezzo milione di morti e più di cinque milioni di rifugiati. Un conflitto non ancora concluso e che, anzi, sembra cominciare, di nuovo, da capo, di tanto in tanto. Mentre scrivo, siamo nel mezzo di uno di questi punti di “nuovo inizio”: pochi giorni fa Erdogan, mentre le delegazioni turche e Usa erano al tavolo alla ricerca di un accordo su una safe zone, ha annunciato di voler invadere la parte di Siria a est dell’Eufrate. Quella, cioè, in mano ai curdi, considerati dal presidente turco “una minaccia per la sicurezza nazionale” e bollati come “terroristi”, alleati però degli Stati Uniti, che tra Mambij e Ain Issa conservano ancora un migliaio di soldati e una base militare.
Ciò che abbiamo scritto sul Fatto.it, è che la Turchia arma e finanzia gruppi jihadisti che secondo varie organizzazioni (Amnesty International, Human Right Watch) hanno violato i diritti umani e commesso crimini di guerra. C’è di più: in questi battaglioni, anche con ruoli di primo piano, ci sono ex membri dell’Isis. Da un elenco, dettagliato, di 43 nomi di miliziani fedeli ad Abu Bakr al-Baghdadi, aggiornato da fonti curde, abbiamo avuto una conferma “incrociata” da canali indipendenti su due nominativi (la verifica, come potete immaginare, è molto complessa). Dalla regione di Afrin occupata dalle truppe turche, inoltre, arrivano immagini di persone che recitano gli stessi slogan dello Stato islamico, guidano auto con la bandiera nera e la scritta “Non c’è divinità se non Allah” e impongono la sharia presso la popolazione che non è fuggita nei campi profughi di Shebha.
L’intesa raggiunta con gli Usa su una non meglio specificata safe zone in territorio curdo sembra avere frenato – ma solo al momento – le mire espansionistiche di Erdogan, che in Siria ha già avviato due operazioni militari (nel 2016 e nel 2018) e che lo scorso anno, contestualmente alla campagna “Ramoscello d’ulivo”, aveva dichiarato di voler arrivare fino a Mosul. Il punto è che ora, dopo aver inviato sul confine, nell’area tra Şanlıurfa e Suruç, migliaia di soldati e mezzi pesanti, potrà contare a ovest sull’appoggio dei suddetti battaglioni jihadisti. Le domande che mi faccio: possibile che alla seconda potenza Nato sia concesso entrare, coi carri armati, in un territorio ancora difeso – a dispetto delle volontà di Donald Trump – dagli Stati Uniti e, più in generale, di intraprendere (o continuare, dipende dai punti di vista) una guerra di aggressione? Possibile che lo possa fare con chi vìola i diritti umani alla luce del sole, dopo aver aperto la cosiddetta autostrada del jihadismo, in cui transitavano senza controlli migliaia di futuri miliziani del Califfato, e dopo aver foraggiato le casse dello Stato islamico comprandone per anni il petrolio? Possibile che possa fare tutto ciò mentre gli altri Paesi Nato restano a guardare?