Se Facebook non si mette paura delle multe miliardarie comminate dalla Federal Trade Commission, non credo si spaventi delle inchieste giornalistiche di Bloomberg e di chi altro si cimenti nel far luce sulle gravi e ripetute violazioni della privacy del social network. La piattaforma è una sorta di tonnara. Chi vi entra – a mutuar Dante – deve perder ogni speranza: ogni informazione (qualunque ne sia il genere e il formato) viene fagocitata dai potentissimi sistemi informatici gestiti da Mark Zuckerberg e poi sottoposta a rigorosi processi di memorizzazione, analisi, catalogazione, schedatura. Dove le macchine non riescono, entrano in gioco gli esseri umani: i moderni schiavi – assunti dai “contractor” al servizio di Facebook – ascoltano conversazioni e messaggi audio che il programma di trascrizione automatica potrebbe mal interpretare.
La manovalanza, incaricata di trasformare le voci in pagine scritte, non è stata informata sulla natura e sugli scopi dell’attività da svolgere, ma qualcuno dei “forzati” ha pensato bene di raccontare ai cronisti quel che sta accadendo. Il soggetto che ha “cantato”, coperto dall’anonimato per non perdere il posto di lavoro, ha spiegato che chi viene arruolato per questo genere di attività non conosce dove siano state effettuate le registrazioni e tantomeno come siano state eseguite. Gli audio dovrebbero provenire dalle registrazioni delle chat verbali attivate volontariamente dagli utenti che si avvalgono delle funzioni della app di Messenger. Ma sarà solo questo a finire nelle fitte reti a strascico virtuali?
Il microfono presente in laptop, tablet e smartphone è il dispositivo di input e i più diffidenti pensano che a farlo entrare in azione possano essere le applicazioni “non sempre sincere” che sono utilizzate quotidianamente. Si innescano i legittimi dubbi circa la destinazione e la finalità d’uso delle nostre voci raccolte ed elaborate continuamente. A chi interessano le chiacchiere che facciamo con gli amici nelle chat oppure le conversazioni “ascoltate” nella stanza in cui ci troviamo?
La tutela della riservatezza non è un capriccio. L’inaudita potenza dei collettori di dati personali (da quel che scriviamo a quel che leggiamo o visitiamo, dalle foto ai filmati, dai dialoghi alla corrispondenza elettronica) dovrebbe far riflettere le persone che – iscritte ai social network – sono la benzina di questa spaventosa macchina. In questo sgradevole caso gli “umani” devono in termini pratici verificare se la soluzione di intelligenza artificiale adottata da Facebook ha correttamente interpretato i file che gli sono stati man mano sottoposti.
Al lavoro ci sono centinaia di subfornitori, che – sottoscritti contratti-capestro e caustici “no disclosure agreement” – non possono dire cosa stia davvero succedendo. Tra le tante aziende c’è TaskUs Inc., con sede a Santa Monica in California, che recentemente ha visto sospendere la commessa ricevuta da Facebook. Irregolarità nell’esecuzione delle attività delegate oppure sospetto che tra i dipendenti ci sia qualche talpa?
L’opacità dello scenario non è certo rassicurante. Le piattaforme social trovano sponda nelle realtà investigative che premono per avere informazioni su soggetti ritenuti potenzialmente pericolosi per la sicurezza. L’acquisizione di dati debordante le regole vigenti potrebbe poi essere “perdonata” e questo sottile ricatto è destinato ad avere un peso non trascurabile. A pagare il conto, è ovvio, saranno sempre i cittadini, i loro diritti, la loro libertà.