Per lunghi anni mi sono limitata a immagazzinare informazioni sul cambiamento climatico, preoccupandomi molto, ma senza andare oltre. Da appassionata di temi sociali, continuavo a scrivere come giornalista sulle questioni che da sempre mi stanno a cuore: lavoro, diritti sociali, infanzia, famiglia, salute e molto altro.
Poi, un giorno, è arrivata Greta Thunberg. Avevo cominciato a seguirla già da un po’, poi ne ho scritto in occasione della sua visita a Roma. Ho avuto modo di ascoltare i suoi struggenti discorsi, riflettere sui concetti – chiari e senza margine di fraintendimento –, ho cominciato a leggere, studiare, approfondire il tema del riscaldamento globale. Ed è come se mi fossi improvvisamente messa un paio di occhiali, quelli del cambiamento climatico. Guardare il mondo, la mia vita e quella di chi mi stava vicino, da quel punto di vista è stato sconvolgente. Nulla è stato più lo stesso.
È vero: rispetto al cambiamento climatico esiste un prima e un dopo e il dopo è il momento in cui realizza davvero cosa stia accadendo. È il momento in cui capisci che gli scenari prospettati dai rapporti internazionali – non da scrittori di fiction – sono reali, possibili. Che la prospettiva di un futuro desertificato, con tale scarsità d’acqua che ci saranno guerre per conquistarla, con migrazioni di massa – dove i migranti potremmo essere anche noi – e temperature insopportabili è un’opzione che non si può escludere.
Per me è stato uno choc. Sono stati mesi difficilissimi: mentre continuavo a seguire i temi ambientali come giornalista, la sera a casa piangevo lacrime di disperazione e paura. La cosa più difficile è stata pensare ai miei figli, a ciò che li aspetta. Mi sono sentita colpevole di averli messi in un mondo simile, colpevole di avergli dato un’infanzia dorata e la promessa di un futuro che non potrà esserci. Perché le risorse saranno troppo poche per tutti e perché le condizioni di vita potrebbero diventare progressivamente estreme. Per fortuna, in questa lacerante angoscia, ho scoperto di non essere sola: sono migliaia – e forse più – le persone terrorizzate e che soffrono di “eco-ansia”. Sono entrata a far parte nel gruppo dei Parents for future, la parte adulta dei Fridays for future. Ho scoperto che ci sono gruppi di auto-aiuto in tutto il mondo, numeri verdi per chi abbia attacchi di panico insostenibili. E ho scoperto che le nostre società di psicoanalisi stanno studiando proprio l’angoscia climatica che emerge dai lettini dei loro pazienti.
In questi mesi in cui ho continuato ad ascoltare e amare Greta ho toccato il fondo del malessere. Mentre saliva la rabbia verso l’indifferenza della politica e dei mass media, soprattutto tv e radio – non potevo (e non posso) credere che si continuasse a parlare del nulla di fronte a un’emergenza che rischia di distruggere non il pianeta ma noi stessi, le nostre famiglie, tutto – sono precipitata in uno stato di costernazione totale. Non riuscivo a prendermi cura dei miei figli, a ridere, ad alzarmi la mattina senza provare panico. Racconto questi aspetti personali perché ho parlato con persone che hanno avuto dinamiche simili e penso possano aiutare chi li sta vivendo.
A un certo punto ho capito, però, che dovevo chiedere aiuto e sono stata fortunata: ho trovato una persona con la quale sono riuscita a fare un percorso per separare l’oggettiva ansia per l’aumento dei gas serra e delle temperature – nulla di psicologico, tutto reale – da aspetti della mia infanzia che probabilmente andavano a esacerbare quella paura e quella disperazione. In fondo, vengo da un’infanzia di cattolicesimo radicale, l’apocalisse era di casa. Ritrovarla, ancor più persecutoria, sotto forma di cambiamento climatico era quello che mi aveva stretto in una morsa insopportabile. Separarle è stato importante. Così ho recuperato un po’ di serenità e di forze, che servono anche per la battaglia per il clima. Oggi sto cominciando a capire che anche in situazioni gravissime – una malattia aggressiva, una guerra – è importante preservare gli aspetti di felicità che restano comunque. So che bisogna condividere e stare molto nella natura: aiuta tantissimo.
Devo a Greta anche il cambiamento della mia vita professionale. Perché oggi mi occupo “solo” del cambiamento climatico. Cioè, praticamente, di tutto. Perché scrivere di cambiamento climatico significa scrivere di politica (si parlerà sempre più di questo e la geopolitica sarà stravolta), di salute (aumento delle malattie respiratorie, aumento di germi e batteri resistenti al caldo e della mortalità da ondate di calore, aumento dei problemi di salute mentale), di economia (cambieranno i prezzi dei prodotti, il valore delle case, tutto), di lavoro (le nuove professioni per tirarci fuori da qui), di tecnologia (che ci può aiutare), di immigrazioni (non ci saranno muri a fermare chi muore di sete), persino di sport (si sta studiando come proteggere dal caldo gli atleti). Ma scrivere di cambiamento climatico oggi significa anche occuparsi di sostenibilità, alimentazione, di educazione, di nuovi stili di vita, anche familiari.
Non da ultimo, occuparsi di riscaldamento globale significa occuparsi di giustizia sociale: perché se è vero che siamo tutti colpiti, lo sono di più i poveri e i fragili. I ragazzini e i malati cronici che rimangono nelle città bollenti perché non possono fare vacanze, ma ancora di più – una tragedia immane – quelle popolazioni dei paesi in via di sviluppo che stavano emancipandosi dalla fame e dalla povertà e che a causa del riscaldamento globale rischiano di precipitare in nuove, irrisolvibili, crisi.
Oggi non sono più felice di un anno fa, anzi. Ma di sicuro sono più consapevole. E forse la consapevolezza porterà qualcosa di buono, compresa la capacità di vedere lontano, in maniera più lungimirante. E magari fare scelte migliori, meno miopi di quelle che avrei fatto appena un anno fa. Anche di questo devo ringraziare Greta Thunberg.