Donald Trump è un uomo pratico. Se vuole la Groenlandia ha buone ragioni. La geologia è dalla sua parte. L’isola più grande del mondo emerge dalla placca nordamericana, il cui confine attraversa l’Islanda. Non solo gli abitanti della Groenlandia, indignati dalla proposta americana, ma anche quelli di Reykjavik dormono sonni poco tranquilli. A quanto pare, l’idea di svegliarsi cittadini americani non entusiasma. E neppure quella di popolare un territorio americano non incorporato, come Portorico, Guam, Samoa Americane, Isole Marianne Settentrionali, Isole Vergini Americane.

Sugli americani la Groenlandia ha sempre esercitato un fascino strategico, gestito con la dovuta discrezione. Un progetto segreto sviluppato nel periodo più caldo della Guerra Fredda, Iceworm, mirava a costruirvi una rete di siti mobili per il lancio di missili nucleari sotto la calotta glaciale groenlandese. Prese l’avvio con la realizzazione di Camp Century nel 1959 e fu abbandonato nel 1966, a causa dell’instabilità della calotta glaciale. L’eredità di 200mila litri di gasolio, conditi da Pcb e rifiuti radioattivi, pone oggi qualche problema legato al cambiamento climatico, che potrebbe ridisegnare un paesaggio più fedele alla “terra verde” su cui spiaggiarono i navigatori danesi. La base e i suoi rifiuti furono abbandonati dopo un decommissioning in stile minimalista nel 1967, supponendo che i rifiuti si sarebbero conservati tal quali per l’eternità sotto il perenne manto nivale.

Senza un titanico impegno militare, gli Stati Uniti potrebbero acquisire la Groenlandia con la forza in pochi giorni. Quando la febbre nazionalista si alza, la fame di territorio può fare brutti scherzi e trasformarsi in un miraggio dagli esiti incerti. Ora più che mai: la geometria della Terra è sempre la stessa, ma lo sviluppo della specie umana ha reso il pianeta molto più piccolo e affollato di un secolo fa. La circostanza che gli americani trattino la questione con lo spirito pratico e gioviale di un immobiliarista porge comunque un segno di pace all’umanità. Per fortuna, Trump ha un debole per l’immobiliare: “È tangibile, solido, bello. È artistico, dal mio punto di vista; e adoro davvero il settore immobiliare”. Afghani e mesopotamici hanno ricordi meno piacevoli di un assegno circolare.

I presidenti degli Stati Uniti hanno già speso un sacco di soldi per allargare il territorio dell’Unione. Nel 1803, Thomas Jefferson acquistò dalla Francia enormi appezzamenti di terra in Louisiana per 15 milioni di dollari, circa 340 milioni di oggi in termini di potere di acquisto. Nel 1867, Andrew Johnson comprò l’Alaska dalla Russia per 7,2 milioni di dollari, un ottimo affare. Né sarebbe il primo acquisto dalla Danimarca: nel 1917 Woodrow Wilson comprò le Indie Occidentali Danesi per 25 milioni di dollari (501 milioni di oggi), poi ribattezzate Isole Vergini Americane. E, per ridurre il debito sovrano, il governo italiano potrebbe anche sondare l’immobiliarista, che rinuncerebbe a malincuore di fronte a un buon affare.

Andy Borowitz ha pubblicato su The New Yorker il commento (satirico) più brillante su questa vicenda ferragostana. Nel suo reportage da Copenhagen scrive: “dopo aver respinto l’ipotetica proposta di acquisto di Donald J. Trump, il governo danese ha annunciato che sarebbe invece interessato ad acquistare gli Stati Uniti”. Gli americani dovrebbero gradire: con l’avvento dei nuovi vichinghi, gli Stati Uniti potrebbero godere di un sistema nazionale di welfare – educativo, pensionistico e sanitario – degno di questo nome, partecipando alla trasformazione di un grande paese in una grande nazione. Secondo il cronista, ci sarebbe in ballo soltanto la riallocazione di Donald Trump, poiché l’offerta danese esclude dal pacchetto l’acquisizione dell’attuale amministrazione. E senza un accordo di ampio respiro con la Russia o la Corea del Nord il problema non si risolve.

Ogni medaglia ha il suo verso. Chi di placca colpisce, di placca può anche perire. Un giorno o l’altro qualche geologo potrebbe scoprire che la placca pacifica sconfina in California o giù di lì.

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