Il diritto al ricongiungimento familiare per fondati motivi, espressione del più generale diritto alla unità della famiglia, vale solo per chi ha un rapporto di coniugio o anche per i conviventi di fatto?
Un caso recente ha posto la questione. Un appuntato dei carabinieri in servizio presso il nucleo investigativo di un comune calabrese, a causa di una grave patologia della compagna, presenta istanza di trasferimento per il ricongiungimento familiare, ma gli viene negato perché – secondo l’Arma – non sussisterebbe rapporto di coniugio. L’appuntato ricorre al Tar Calabria contestando la legittimità della “declaratoria di inammissibilità della domanda di trasferimento”, in quanto qualsiasi forma di discriminazione giuridica della convivenza rispetto al matrimonio civile violerebbe l’articolo 2 della Costituzione, che riconosce tra i diritti fondamentali dell’uomo anche quello di una stabile ed effettiva convivenza more uxorio.
In più, il diritto all’unità familiare è contemplato da numerose altre disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, radicato in strumenti per i diritti umani universali e regionali e si applica, indipendentemente dal loro status, a tutti gli esseri umani.
Tale decorso, in fatto di produzione normativa, in Italia trova il suo apice nella legge 20 maggio del 2016 n° 76, cosiddetta legge Cirinnà, che con l’art. 1 commi 1-35 disciplina le unioni civili tra persone dello stesso sesso e con l’art. 1 commi 36-68 la convivenza di fatto tra “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”. Al comma 37, la stessa legge prevede anche che per l’accertamento della stabile convivenza si faccia riferimento alla dichiarazione anagrafica.
Di conseguenza, equiparando il convivente more uxorio al coniuge per quanto riguarda l’assistenza ospedaliera, poteri di rappresentanza conferibili in caso di malattia e incapacità di intendere e di volere, e al subentro nel contratto di locazione della casa di residenza intestato al convivente deceduto, la legge Cirinnà pone le basi per il diritto al ricongiungimento familiare.
Nel caso del carabiniere della nostra storia, il nodo gordiano è proprio questo: se ad avere diritto al ricongiungimento debbano essere soltanto i coniugi uniti civilmente – come sostiene la difesa del Ministero – o estendere tale diritto anche ai conviventi di fatto. Il colpo di spada che tronca il nodo e dirime la questione arriva dal Tar Calabria che accoglie il ricorso del carabiniere e con la sentenza n. 321 di maggio 2019 stabilisce che sì, solo la seconda ermeneutica è da ritenersi conforme ai principi costituzionali. “Si deve dare atto dell’evoluzione del concetto di famiglia – scrive il giudice – comprensivo anche delle unioni di fatto tra individui (anche dello stesso sesso), e della progressiva e conseguente valorizzazione della convivenza stabile quale fonte di effetti giuridici rilevanti”.
Sul piatto della bilancia giurisprudenziale ha sicuramente pesato la legge Cirinnà, nonché l’ultima sentenza della Corte costituzionale – la n° 213, settembre 2016 – la quale ha stabilito il principio secondo cui anche al convivente di persona disabile che si occupi dell’assistenza in favore del partner malato o invalido ha diritto di usufruire, alla stessa stregua dei coniugi e dei parenti fino al secondo grado, dei tre giorni di permesso mensile retribuito e coperto da contribuzione figurativa previsti dalla legge 104 del 1992.
In conclusione, per il Tar l’esclusione della convivenza more uxorio, stabile e accertata, dal rango delle situazioni che legalizzano il ricongiungimento familiare è apparso insensato.
Negli anni in cui ci si è battuti per una legge per le coppie di fatto, gli ortodossi dell’istituto matrimoniale hanno cercato di avallare con la parola famiglia il perpetrarsi di una discriminazione: la famiglia era e restava l’istituzione fondamentale della società e delle comunità e come tale doveva essere protetta. Anni di dibattiti dove all’articolo 29 della Costituzione, che riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, si contrapponeva l’articolo 2 che invece garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Il conflitto sembrava insanabile e il vuoto normativo per dare diritti anche a quelle altre famiglie, incolmabile.
Ma in questi anni è risultata del tutto evidente la trasformazione antropologica subita dalla famiglia, la quale non trova più il suo cardine nella necessità biologica della riproduzione, ma nella qualità delle relazioni affettive e nella condivisione dell’intimità. Anni di lotte fino ad affermare con una legge – la Cirinnà – che la famiglia non è qualcosa di astratto e ideologico per legittimare politiche di stampo etico, ma un luogo dove si sviluppano qualità relazionali ed emotive nelle diverse forme che queste relazioni assumono, per conciliare l’amore e la libertà degli individui che lo animano, a prescindere dal sesso.
È sempre più evidente che ci troviamo di fronte a una formazione dinamica, in una situazione di flusso storico o, se preferite, di transizione. Di sicuro c’è che non c’è niente di meno naturale della famiglia, istituto artificiale nato per difendersi proprio dal disordine della natura, dal caos e l’incesto.