Cinema

Il Re Leone, la versione 2019 ricorda un documentario del National Geographic (e non è affatto un male)

Insomma, un film senza set, senza attori, con animali ultrarealistici che parlano, urlano, ridono, si dannano l’anima, rischia di essere uno dei film più visti dell’ultimo decennio e dell’intera storia del cinema. Oggi, anno domini 2019, la settima arte a livello industriale planetario è a questo punto qui

di Davide Turrini

Sarà, ma Hakuna Matata si torna a cantarlo volentieri. Anche venticinque anni dopo. Il re leone, versione 2019, regia di Jon Favreau (Il libro della giungla, 2016; ma anche corpulento attore in Spider Man e Iron Man) è un singolare, azzardato, affascinante esperimento di animazione fotonaturalistica sui resti vivi nella memoria di un film d’animazione classico e perfino un po’ kitsch che sembra quasi preistorico. Già, ne avrete letto ovunque. Il remake Disney della celebre matrice del 1994 (là diressero Roger Allers e Rob Minkoff) è letteralmente ricreato in CGI dal primo all’ultimo pelo animale. Tanto che qualche settimana fa, mentre il film usciva negli Stati Uniti (a proposito sta andando benone: a fronte di un budget da 260 milioni di dollari siamo a 500milioni negli Usa e quasi un miliardo nel resto del pianeta), Favreau aveva postato su Twitter l’unica inquadratura “vera” del film: un campo lunghissimo di un tramonto della savana africana, guarda caso, senza bestiole. Antilopi, iene, giraffe, leoni e leonesse sono infatti tutte riprodotte in computer grafica dal nulla con un risultato mimetico e di autenticità che in alcuni momenti fa spavento.

I cosiddetti pelucchi, che una volta si stampigliavano su grande schermo dal fondale delle pellicole che ruotavano in cabina di proiezione, oggi sono tutti a favore di “macchina da presa” e diventano ondeggianti e setosi la “cifra” stilistica di una metodologia di creazione e ripresa, di fondo inesistente in natura, che, volenti o nolenti, ha notevole presa nello spettatore. Capiamoci. La sinossi rispetto al film del 1994 è pressoché identica. Come identiche le hit musicali (più la fresca Spirit di Beyoncé) che fecero breccia in mezzo mondo ed elevarono il dramma disneyano a quasi musical. Il leoncino Simba, figlio di re Mufasa, sarà il nuovo erede al trono della savana, ma il diabolico zio Scar trama assieme alle iene la defenestrazione violenta e definitiva di Mufasa e la cacciata, che apparentemente avverrà, di Simba. Il leoncino però sopravvivrà e diventato grande con l’aiuto spensierato (Hakuna Matata, mi raccomando) del duo Timon e Pumbaa (un suricate e un facocero) tornerà feroce e vendicatore nel regno plumbeo e cupo di Scar per ristabilire giustizia.

Qualche piccolo aggiornamento alla contemporaneità a livello etico c’è (animalismo a go-go in quanto la pace tra animali vive di un implicito patto dove i più forti non sbranano i più deboli per sfamarsi; la mossa antibullista di Pumbaa contro le iene che lo accusano di essere un ciccione), ma questo nuovo, lucidato e levigato Re Leone sembra avere una marcia in più proprio nell’ambito stilistico-formale. Ovvero questa totalizzante ri-creazione di ogni immagine animale dal nulla con parecchi momenti di azione, zuffa, coreografia tra bestie che sembrano estrapolati direttamente da un documentario dalla National Geographic.

Aspetto impattante che sostiene e rilancia l’impianto drammaturgico ampiamente shakespeariano che nel 1994 veniva inondato di siparietti comici e che qui ne mantiene comunque l’ironia di fondo (Pumbaa che scorreggia in piena silenziosa savana senza avvisare come il peggior sconosciuto in ascensore vale sempre un terzo del biglietto). Il solito gran daffare, infine, nel campo del doppiaggio in italiano (Massimo Popolizio/Scar fa venire i brividi) e dei brani musicali di una colonna sonora copia carbone con qualche arrangiamento e accorgimento più fluido rispetto ai ninnoli elettronici anni ’90 dallo stesso Hans Zimmer, oltre al solito parterre de roi tra i compositori extra: Beyoncé appunto (in originale dà anche la voce alla leonessa Nala, amica/fidanzata di Simba), Elton John e Pharrell Williams che riattualizzano The circle of life e altri storici brani del ’94. Insomma, un film senza set, senza attori, con animali ultrarealistici che parlano, urlano, ridono, si dannano l’anima, rischia di essere uno dei film più visti dell’ultimo decennio e dell’intera storia del cinema. Oggi, anno domini 2019, la settima arte a livello industriale planetario è a questo punto qui. Prendere, lasciare. Oppure, come sempre: Hakuna Matata.

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