E’ stata solo un’avvisaglia di primavera l’appoggio dei media occidentali al movimento “Fridays for future”, con la facile consacrazione di Greta Thunberg a icona. Ma è con l’estate rovente più raccontata di sempre che i grandi nomi del capitalismo ordoliberista hanno deciso di cambiare la maschera.
I 181 manager americani più importanti, riuniti nella Business Roundtable, il 19 agosto hanno voluto stendere un’inconsueta dichiarazione eco-etica, “Lo scopo dell’impresa”, annunciando che per salvare il pianeta possono rinunciare a qualche margine di profitto e tagliare persino le loro colossali retribuzioni.
Qualche giorno dopo, a Parigi, i rappresentanti di 32 gruppi del lusso e della moda hanno firmato il nuovo Fashion Pact: queste multinazionali improvvisamente diventate così buone (tra cui spiccano, per esempio, i marchi sportivi accusati per lo sfruttamento dei bambini-schiavi), ora si impegnano a sostituire gli impianti produttivi inquinanti, a smaltire correttamente i rifiuti tossici e a ridurre l’impatto ambientale del packaging.
Tema, questo delle confezioni sostenibili, su cui si muove il colosso delle bibite che ha fatto seminare nel mondo miliardi di lattine e bottigliette, e adesso lancia la campagna Www, world without waste, e incentiva il Byob (Bring Your Own Bottle, porta la tua bottiglia), con distributori automatici dove al consumatore che si presenta armato di borraccia l’acqua verrà fornita gratis e le varie bevande a prezzi molto contenuti. Si è fatto notare anche il leader mondiale gialloblù dell’arredamento, che ha annunciato di voler diventare climate positive entro pochi anni.
Massimo Gaggi (Corriere della Sera, 23 agosto) ha evidenziato un’altra mossa chiave nel nuovo scacchiere eco-capitalista: il colosso dei rating Moody’s, i cui dati tengono in piedi gli stessi equilibri bancari e finanziari del turbo-capitalismo planetario, a fine luglio ha deciso di acquistare una giovane e dinamica società di Berkeley specializzata nell’analisi delle conseguenze del climate change, “Four Twenty Seven” (il nome originale si riferisce all’obiettivo di riduzioni delle emissioni della California, che nel 2020 dovrebbe portarsi appunto ai 427 milioni di tonnellate di carbonio).
Del resto, il solo business delle catastrofi ambientali negli Stati Uniti viene calcolato in 2500 miliardi di dollari nel 2019. E vari economisti sostengono, addirittura, che il “rischio estinzione” si potrebbe rivelare un’opportunità di crescita planetaria, pari alla molla che generò il grande boom del Secondo Novecento, ovvero la catastrofe della Guerra Mondiale.
Quest’ennesima giravolta dei poteri forti segna un salto di qualità rispetto al semplice green washing (lavaggio al verde), ormai sempre più sfacciato, buono ormai giusto per gli speculatori edilizi del principato offshore che trasportano Greta per mare. Ora siamo al green disguise (mascheramento verde), concetto che era stato applicato alle politiche d’incentivi europei per l’agricoltura biologica, “Organic farming”, un fiume di decine di miliardi di euro ormai ventennale che avrebbe favorito soprattutto i grandi gruppi agrari capitalistici.
Adesso che l’emergenza climatica produce una nuova sensibilità collettiva che rende plausibili grandi investimenti pubblici ad hoc, i soliti noti si attrezzano per intercettare questi giganteschi flussi finanziari degli stati e degli organismi sovranazionali.
Il green disguise è anche quello che si può notare in questi giorni sulla scena italiana, ben oltre le pagine dei giornaloni: basti pensare alle riverniciature dei programmi di governo dei partiti e al dibattito sulla rifondazione veltroniana di una sinistra Ali (Ambiente, al primo posto, Lavoro, Istruzione). Ma questo è un altro discorso.