Questa roba sarebbe quindi la promessa, la sedicente, la pretesa nuova politica. Il grande sforzo dell’iniezione “civica” in sostituzione della politica di professione sarebbe dunque questa “specie di politica”, come la chiama Antonio La Trippa quando scopre – da candidato neomonarchico illuso che la missione sia davvero far tornare il re dall’esilio – che i dirigenti del suo partito in realtà vogliono solo usare la sua vita adamantina da ex ufficiale dell’esercito per raccattare voti e spartirsi appalti. Sarebbe questa la nuova politica. La politica “del cambiamento” (Giuseppe Conte), la politica “di rinnovamento” (Nicola Zingaretti), per un “governo di svolta” (ancora Zingaretti), “di responsabilità” (Matteo Renzi), che mette come primo punto irrinunciabile il taglio delle poltrone e però da tre giorni parla solo di quella del presidente del Consiglio (“O Conte o si vota”).
A quelli che davvero credono un briciolo alla classe politica di questa Terza Repubblica che si spende molto per far rimpiangere la Prima, il dialogo tra M5s e Pd appariva la premessa di un corso pieno di aspettative: l’unione delle energie e delle idee migliori di due forze politiche che al loro interno hanno molti chiaroscuri, molte contraddizioni, su aspetti diversi. Invece no: un casino, tra messaggi incrociati, mezze estorsioni, pizzini, audio finti rubati, post pubblicati in piena trattativa, dieci tweet al minuto. Uno spettacolo abbastanza scarso, simile a una riunione di condominio che alterna il momento in cui si alza la voce per averla vinta davanti alla platea a quello in cui si spiffera qualche pettegolezzo sul vicino. Se non fosse che è finita com’è finita, il tavolo per il contratto tra M5s e Lega al confronto ricordava la Camera dei Lord.
Chi si è illuso pensava che subito dopo la fine delle consultazioni, già dalla sera, i migliori di Pd e M5s avrebbero fatto l’unica cosa normale: mettersi a un tavolino per 120 ore filate per parlare di programma (soprattutto) e di una qualche squadra di governo da condividere. Zero pause, generi di prima necessità portati dalla Croce rossa e doppia mandata alla porta finché l’incontro non avesse dato un risultato, o positivo o negativo.
Doveva essere quella la prima reazione, se non per rispetto dei cittadini-elettori a cui era stato promesso il nuovo mondo (ma che ormai sono abituati alla disillusione), almeno per riconoscenza e affetto nei confronti del presidente della Repubblica che un accordo di massima l’aveva chiesto per giovedì scorso e si è ritrovato invece davanti solo facce toste, incredibili retromarce, strategie di posizione, mezze parole, balbuzie, pretoriani dei propri orticelli. I Cinquestelle e il Pd da tempo non hanno più la maggioranza relativa ma dal giorno delle consultazioni hanno continuato a comportarsi come se. E si sono messi a giocare a poker: lanci, rilanci, rialzi, bluff, paletti, cambi di gioco, provocazioni, sgambetti, ammiccamenti e occhiatacce. Il tavolo, peraltro, come al solito, non è loro: è di chi li ha votati e anche di chi non li ha votati.
Irrinunciabile, per esempio, tra i dieci punti di Luigi Di Maio poteva apparire un confronto tra M5s e Pd sul salario minimo. Invece prima il M5s ha posto come condizione esclusiva il taglio dei parlamentari, riforma costituzionale a un metro dal traguardo e per certi versi di buon senso, ma che non cambia di una virgola il tenore di vita di nessuno dei cittadini in un periodo complicato che si sta allungando mese dopo mese. E poi, una volta che il Pd ha acconsentito, il punto intoccabile è diventato quello del nome del presidente del Consiglio su cui rischia – si dice – di saltare tutto.
Dopo aver cambiato per tre volte argomento di discussione, ora esce fuori la frase per cui “il Paese non può aspettare il Pd”, perché l’assillo è solo buttare il pallone di là, come un (pessimo) giocatore di tennis. Il M5s – con il suo ipertatticismo alla Renzi – sembra che invece di trovare l’accordo si preoccupi di più di attribuire la colpa a qualcuno nel caso le cose vadano male. Ma quello di additare i presunti responsabili di solito è il lavoro delle opposizioni, non di chi vuole governare per cambiare le cose.
Dall’altra parte – saltati a pié pari il capitolo di un partito straziato da dieci correnti e quello della capriola alla Simone Biles di Renzi- Zingaretti si è messo all’angolo da solo prima ancora di cominciare, con il veto poco comprensibile sul presidente dimissionario Conte e la volontà di far restare dentro al governo Di Maio. Una scelta contraria alla logica: se c’è una figura compatibile, integrabile, è proprio Conte.
Viceversa se c’è una figura dei Cinquestelle che più si è compromesso con Matteo Salvini (e un asse spostato a destra) è proprio Di Maio, che perfino sull’immigrazione in questo anno si è ritrovato a scopiazzare l’altro vicepremier con tanto di cicatrici sul decreto Sicurezza bis. Oggi più di ieri al contrario Conte è percepito come colui che ha “battuto” Salvini proprio su quello che in questi 14 mesi è stato più contestato il segretario della Lega. Il capo del governo è un ex elettore del centrosinistra, da un anno è pedissequo al Quirinale, ha fatto di tutto per rispettare i vincoli europei sull’economia, ha perfino deciso per il sì al Tav e al Tap.
Conte non ha mai detto una parola polemica sul Pd (e viceversa, a parte Renzi), non ha mai detto “il partito di Bibbiano” e nemmeno cose anche meno fuori dal mondo. È stato lui – Conte, non Di Maio – a chiudere il forno con la Lega con quella dichiarazione dal G7, a togliere quell’ambiguità aperta dal post di Alessandro Di Battista e agevolata dalle mancate risposte di Di Maio. Se Zingaretti voleva un’assunzione di responsabilità del M5s nel prossimo eventuale governo, tra l’altro, anche in quel caso Conte era la persona giusta da “appesantire” con un incarico di governo. Di Maio è al secondo mandato, Conte è di fatto già il leader e probabile prossimo candidato premier.
Eppure Zingaretti ha escluso Conte e ora si ritrova spalle al muro: ci si è messo da solo. Se vuole far partire il governo di rinnovamento, deve fare un’altra retromarcia: aveva detto “Al voto!” e invece ora tratta per il governo; aveva detto no a Conte e ora invece l’unica uscita sembra dire sì a Conte. Non proprio il ruolino di marcia di un leader.
Le attenuanti per entrambi i partiti sono davanti agli occhi. Non si fidano l’uno dell’altro e hanno buone ragioni, in un senso e nell’altro. I leader non si fidano dei pezzi delle rispettive forze politiche, e dagli torto. Da entrambe le parti hanno avuto bisogno di un po’ di tempo per lubrificare i rispettivi elettorati che fino al giorno prima si prendevano a male parole. Sono, sopra a ogni altra cosa, due partiti in crisi di consensi e gli ultimi sondaggi sono solo un’aspirina.
Così agli sgoccioli di questa crisi di governo, mentre a 48 ore dalla scadenza del Quirinale ancora non si sa come finirà, ciò che è chiaro per entrambe le parti e per entrambi i leader, è la mancanza di coraggio: il coraggio di venirsi incontro. Potevano scegliere tra un confronto trasparente con un accordo serio e le elezioni: hanno scelto il gioco d’azzardo per difendere quel poco che hanno e rischiano di avere le elezioni.