Politica

M5S-Pd, il problema è l’alleanza. Non Giuseppe Conte

La trattativa tra Pd e Movimento Cinque Stelle per un nuovo governo è appesa al ruolo di Giuseppe Conte: deve rimanere presidente del Consiglio come garante dell’alleanza (linea M5S) o deve farsi da parte come segno visibile di una rottura con il passato gialloverde (linea Pd)? Conte si è presentato nel suo discorso di insediamento, oltre un anno fa, come “avvocato del popolo”, chiamato a vigilare su quella strana forma di coalizione costruita intorno a un “contratto di governo” invece che a un accordo di coalizione.

Conte è diventato premier non in quanto leader politico e carismatico – nessuno o quasi lo conosceva – ma perché giurista, con un profilo da tecnico e quel tanto di esperienza del mondo che lo rendeva molto più adatto del militante medio dei Cinque Stelle alla carica. Oggi il contratto è crollato, travolto da normali dinamiche politiche che la codificazione dei rapporti di forza e gli sforzi del premier non hanno saputo arginare. Quindi la principale fonte di legittimità per “l’avvocato del popolo” è venuta meno. Senza contratto, non serve l’avvocato.

Nel frattempo, però, Conte è diventato qualcosa di simile a un leader politico anche se l’esperienza di altri inquilini di palazzo Chigi (da Dini a Monti a Letta e Gentiloni) consiglia prudenza nello scambiare il gradimento per un premier in carica per vero consenso personale. Conte ha un gradimento inferiore soltanto a quello del presidente della Repubblica (vedi sondaggio di GPF per Ansa del 21 agosto). E poiché la stagione di Luigi Di Maio è ormai legata all’esperienza fallimentare e ancillare del governo con la Lega di Matteo Salvini, è anche l’unico nome forte del Movimento cinque stelle. Comprensibile, quindi, che i pentastellati non siano disposti a sacrificarlo.


D’altra parte il Pd non può accettare di subentrare semplicemente alla Lega come partner di minoranza di un Movimento che nei sondaggi è moribondo mentre solo in Parlamento è ancora forte. Un nuovo governo guidato dallo stesso presidente del Consiglio – cioè Conte – sembrerebbe a molti degli elettori dem più ostili ai Cinque Stelle un atto di sottomissione in cambio di qualche poltrona. Come uscirne? Forse bisogna prendere il problema da un’altra prospettiva. E decidere prima che tipo di governo deve essere. Una volta fatto questo, stabilire se Conte è il premier giusto o meno diventa naturale.

Il Pd di Nicola Zingaretti ha presentato cinque punti su cui impostare la trattativa, piuttosto vaghi: dall’appartenenza all’Europa a una gestione umana dei flussi migratori a un cambio di rotta in politica economica e sociale (ma quale? via il decreto dignità? O via le partite Iva agevolate leghiste?). Il M5S ha replicato con una lista di dieci punti, un po’ più concreti, una specie di programma di legislatura rivisitato, dall riforma della Rai – l’ennesima – alla difesa dei beni comuni.

La vaghezza di queste posizioni nella trattativa genera lo stallo sul nome di Conte. Se le richieste di Pd e M5S sono da intendere come una lista esaustiva, il menu d’azione di un governo dal mandato limitato che può muoversi soltanto all’interno di quei paletti, allora si tratta di un’operazione simile al contratto per il “governo del cambiamento versione 2018”: non un’alleanza politica, ma un patto di non belligeranza tra avversari. Se l’operazione è la stessa, e il M5S è ancora il primo partito tra i due, come era con la Lega, allora non ci sono argomenti per sostenere che Conte se ne debba andare. I Cinque Stelle avevano diritto a esprimere un premier “garante” del contratto nel 2018 come ce l’hanno ora, visto che Lega e Pd sono junior partner. E i junior partner non possono imporre all’azionista di maggioranza di sacrificare il proprio leader più popolare.

Se invece quei punti programmatici sono così vaghi perché il vero scopo dell’alleanza Pd-M5S – non dichiarato ma consequenziale rispetto agli eventi- è impedire che a palazzo Chigi vada Matteo Salvini, allora le cose cambiano. Non si tratta di un’alleanza pragmatica basata su una lista di cose da fare, ma una trincea ideologica e valoriale, una alleanza politica contro l’avanzata della nuova destra sovranista, una specie di Comitato di liberazione nazionale a difesa delle istituzioni.

È chiaro che in questo scenario Conte non è il premier adatto: ha avallato tutte le politiche della Lega e tutte le iniziative di Salvini sui migranti, almeno fino alla crisi di governo, si è anche auto-denunciato in Procura sostenendo che le decisioni sulle navi Ong erano collegiali (per queste ragioni, però, sarebbe difficile giustificare anche la permanenza di Di Maio in un esecutivo di “salvezza nazionale”).Se il governo Pd-M5S nasce su una base anti-Salvini, allora ci vuole un premier coerente con la missione: più che Raffaele Cantone, uno alla don Luigi Ciotti, magari la rediviva Rosy Bindi, qualcuno così, che incarni un’idea di Italia radicalmente alternativa a quella salviniana, non un “avvocato del popolo”.

Nessuno dei due partiti ha ancora sciolto questa ambiguità. Perché farlo significa prendere decisioni rilevanti, chiarire se in Italia ci sono due poli (destra vs nuovo centro sinistra) o tre (destra anti-establishment, populisti post-ideologici, partiti di establishment). Significa ammettere errori passati di valutazione sugli avversari-alleati e vincolarsi per il futuro. Significa, insomma, essere chiari e onesti con i propri elettori.

Cari leader del Pd e M5S, chiaritevi le idee e fateci sapere in fretta. Conte, nel vuoto siderale di figure istituzionali in Italia, può rimanere una risorsa dentro o fuori da Palazzo Chigi. Ma la decisione, per usare l’espressione di moda oggi, è prima di tutto politica. E solo in seconda battuta di poltrone.