La scorsa settimana l’Alta commissione irachena per i diritti umani ha reso noti i risultati di una sua ricerca sull’uso della pena di morte dall’inizio dell’anno. Anche se il governo non ha mai reso pubbliche informazioni sull’argomento, la fonte della ricerca è ufficiale: il ministero della Giustizia di Baghdad.

Da gennaio sono stati messi a morte oltre 100 prigionieri e altri 8022 attendono l’esecuzione nei bracci della morte. Al ritmo attuale, comunque terrificante, e in assenza di nuove condanne a morte (un evento inimmaginabile) ci vorrebbero 40 anni per svuotarli tutti. Un’accelerazione c’è comunque già stata rispetto allo scorso anno, quando in tutto le esecuzioni erano state 52. La maggior parte delle esecuzioni si è basata sulle leggi speciali antiterrorismo e ha avuto luogo al termine di processi sommari, fondati su confessioni estorte con la tortura o su presunte dichiarazioni di persone mai comparse in tribunale.

Le persone messe a morte erano prevalentemente combattenti dello Stato islamico, o sospetti tali, catturati nella battaglia di Mosul o consegnati alle autorità irachene dalle Forze democratiche siriane, a guida curda, restie al trasferimento ma, come si capirà meglio più avanti, senza altra scelta.

Sempre secondo l’Alta commissione per i diritti umani, complessivamente nelle 36 prigioni irachene si trovano, condannati o in attesa di giudizio, 37.113 prigionieri: la metà – 18.306 – sono detenuti per reati di terrorismo e, come ricordato, più di 8mila sono in attesa di esecuzione.

Come ho già scritto in un post alcune settimane fa, molti detenuti sono cittadini stranieri arruolatisi nello Stato islamico: presumibilmente 4mila, più di un decimo dei quali di nazionalità francese. Il Kosovo, primo paese europeo in termini relativi, ossia in proporzione alla popolazione, per numero di foreign fighters è tra i pochi ad aver organizzato il rientro di parte dei suoi cittadini: 110, soprattutto donne e bambini. L’hanno fatto anche alcune ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, ma presumibilmente per sbarazzarsene a modo loro coi metodi tipici di quelle dittature.

Resta aperta la questione di cosa fare dei cittadini dell’Unione europea. La posizione irachena non è chiara: c’è chi negozia con gli Stati europei perché se li riprendano e chi, magari in cambio di aiuti economici, propende per svolgere i processi in Iraq difendendo la scelta della pena di morte. Nei giorni scorsi l’esperta delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie e arbitrarie, Agnès Callamard, ha sollecitato Parigi a rimpatriare sette jihadisti francesi condannati a morte senza aver avuto la minima assistenza consolare. Nella sua nota Callamard ha messo in luce l’incongruenza di fondo di questa vicenda: la Francia è contraria alla pena di morte (e, col resto dei paesi dell’Unione europea, porta avanti una politica globale abolizionista), ma non al fatto che suoi cittadini siano processati in un paese che applica la pena di morte su scala industriale.

Si è persa nel silenzio generale la proposta delle Forze democratiche siriane di processare i terroristi dello Stato islamico istituendo nei loro territori, nel nord-est della Siria, un tribunale internazionale. Non gli ha risposto nessuno: l’amministrazione curda non è riconosciuta a livello internazionale. Eppure sarebbe l’unica soluzione in grado di assicurare due obiettivi: la non impunità per gli imputati riconosciuti colpevoli di gravissime violazioni dei diritti umani e, allo stesso tempo, il rispetto dei loro diritti di fronte alla giustizia penale.

Troppo idealistica e velleitaria, vero? Più semplice affidare tutto al boia iracheno.

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