Pietro Graziani, attuale responsabile del programma Amazzonia senza fuoco, iniziativa promossa dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, spiega come, insieme ai business agroalimentari, la causa delle fiamme sia da ricercare anche nell'uso scorretto del fuoco nelle attività agricole. Dal 1999 esiste un programma per addestrare i contadini formando "brigate antincendio": "Forti riduzioni nei municipi dove siamo intervenuti"
Da un lato l’agrobusiness con la “volontà dei grandi imprenditori di sfruttare il terreno per le coltivazioni, in particolare della soia, per il pascolo dei bovini e per l’accaparramento di risorse minerarie preziose”. Dall’altro, la necessità di formare i contadini per prevenire le fiamme tenendo un comportamento corretto e favorendo colture che non necessitano dell’uso del fuoco per rigenerare velocemente il terreno. Perché se è vero, come spiega Pietro Graziani, responsabile del programma Amazzonia senza fuoco, iniziativa promossa dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics), che gli incendi in Amazzonia nascono da “interessi commerciali” e “non certo per colpa delle ong, tutte impegnate nella difesa dell’ambiente”, grazie anche alla “complicità e al supporto” del presidente Jair Bolsonaro, che “durante la campagna elettorale ha considerato l’Amazzonia come un ostacolo alla crescita economica” del Brasile e da quando “è salito al potere ha ridotto le misure di contrasto alla deforestazione”, attenzione viene posta anche all’uso scorretto del fuoco nelle attività agricole.
“La lotta agli incendi – avverte Graziani – non si può fare se prima non si insegnano ai contadini locali pratiche alternative e il controllo dei fuochi appiccati. Non c’è conoscenza dei pericoli, dei disastri che si fanno se le fiamme divampano nella foresta quando la terra viene bruciata per essere pulita dalle sterpaglie o dai residui delle piantagioni”. Il programma, che costituisce una best practice a livello internazionale, è stato sviluppato per la prima volta in Brasile, dove è durato dal 1999 al 2009, poi in Bolivia, dal 2012 al 2017, e da tre anni sotto la guida di Graziani è attivo in Ecuador. Il governo italiano lo ha finanziato fino adesso con circa 11 milioni di euro. E i risultati sono stati evidenti. Lo ricorda Roberto Bianchi, che ha coordinato il programma fin dall’inizio, per 16 anni. “In Brasile abbiamo coinvolto nel progetto 64 municipi negli Stati dell’Acre, Mato Grosso e Parà. Durante il nostro lavoro di formazione e di sensibilizzazione gli incendi sono stati ridotti dal 50 al 93 per cento. Mentre l’intervento in Bolivia ha ottenuto la riduzione dell’86 per cento della superficie delle aree bruciate”.
Un grande successo, tanto che “nel 2010 – continua Bianchi – è stato adottato dall’Istituto brasiliano dell’ambiente e delle risorse naturali rinnovabili, che è il braccio operativo del ministero dell’Ambiente”. Ma la politica di Bolsonaro sembra averlo messo da parte. Secondo un’analisi del New York Times nei primi sei mesi del suo governo le azioni di contrasto (sanzioni e sequestri) da parte dello Stato sono calate del 20 per cento rispetto allo stesso periodo del 2018. L’Istituto nazionale di ricerche spaziali del Brasile ha calcolato da gennaio ad agosto oltre 76mila incendi in tutto lo Stato del Sud America. L’85 per cento in più di quelli registrati negli stessi mesi dello scorso anno.
“Non basta domare gli incendi in tempo, per eliminarli bisogna prevenirli. Se Amazzonia senza fuoco venisse adottato sistematicamente da tutti gli Stati che abbracciano la foresta sarebbe una svolta”, esorta Bianchi. La strategia del programma consiste nella formazione di formatori, che a livello locale devono poi diffondere quanto appreso. Attraverso la creazione di “brigate antincendio”, ossia gruppi di volontari reclutati sul posto e addestrati non solo per intervenire prontamente in caso di incendio, ma anche per insegnare ai contadini a controllare i fuochi appiccati nei campi, evitandoli se tira il vento, realizzando dei corridoi antifuoco intorno al terreno per evitare il contatto accidentale con gli alberi della foresta o preferendo i momenti più umidi della giornata. Oltre a sviluppare pratiche alternative.
“Come la semina di piante leguminose – analizza Bianchi – che rappresentano un ottimo fertilizzante e il loro manto vegetale soffoca le erbacce consentendo nuove coltivazioni senza usare il fuoco, che a lungo andare impoverisce il terreno oltre a essere molto pericoloso”. In Ecuador, aggiunge Graziani, “finora sono state formate dieci brigate antincendio ciascuna composta da 15 persone”. Un’altra soluzione è recintare i pascoli con i fili elettrici. “Gli incendi servono a rigenerare alla svelta l’erba. Ma se si suddividono gli appezzamenti con dei recinti e il bestiame viene fatto ruotare, il pascolo ha il tempo di riformarsi spontaneamente”. Fondamentali anche le campagne di informazione e sensibilizzazione sui rischi degli incendi nelle scuole e sui media (anche queste previste nel progetto).
“I governi sudamericani sono convinti che se non si sfrutta l’Amazzonia per creare reddito i loro Paesi resteranno in via di sviluppo per sempre”, sostiene Bianchi, secondo cui l’unica strada percorribile per salvare l’Amazzonia è quella della cooperazione internazionale: “A ogni ettaro di foresta tutti gli Stati dovrebbero riconoscere un valore pari al prodotto che darebbe se fosse coltivato a soia o destinato all’allevamento. Solo così il polmone del Pianeta tornerebbe a respirare”.