di Giorgio De Girolamo

Abbiamo assistito nelle scorse settimane alla tanto attesa approvazione del decreto Sicurezza bis, che ha come nodo centrale la regolamentazione del salvataggio in mare delle migliaia di uomini, donne e bambini che ogni giorno fuggono dal sud del mondo. Seguiamo attentamente nel dibattito pubblico un quotidiano tifo pro o contro un flusso migratorio che, negli ultimi tre anni, ammonterebbe a 700mila persone in un continente che conta più di 700 milioni di abitanti (la Ue da sola supera i 500 milioni). Ma, presi dalle molte paure, dimentichiamo la paura più importante: la crisi climatica che avanza.

Di fronte a uno dei più validi report in materia redatto dalla Banca mondiale più di un anno fa, che ci dice che “entro il 2050 saranno almeno 143 milioni le persone costrette a spostarsi per ragioni legate al cambiamento climatico”, aiutarli a casa loro, come in molti dicono, significherebbe almeno mettere l’impegno di combattere i cambiamenti climatici al centro dell’agenda politica mondiale. Impegno che latita nella maggior parte delle potenze mondiali, che anzi spesso si avvicinano pericolosamente a posizioni negazioniste. È il caso di Jair Bolsonaro e della “sua” foresta amazzonica, annunciata terra di conquista per multinazionali dell’agricoltura e del legname.

Dei 143 milioni di migranti stimati, oltre la metà, 86 milioni almeno, proverranno nell’Africa sub-sahariana, area che soffre ormai da decenni di fenomeni quali siccità e carestie ricorrenti, desertificazione e degrado del suolo, scarsità di acqua e piogge insufficienti. I restanti 40 e 17 milioni proverranno rispettivamente da Asia del sud e America Latina. A chiarirci questo scenario si aggiunge anche il recente report dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc), pubblicato lo scorso 8 agosto, che ribadisce come “molto probabilmente l’aridità aumenterà in alcune zone dell’Asia meridionale, centrale e orientale, e dell’Africa occidentale, dove risiede circa la metà delle popolazioni più vulnerabili, con gravi rischi per la sicurezza alimentare e conseguente aumento dei fenomeni migratori”.

Mentre i deserti avanzano sulle terre coltivabili, logorando economie di stati già molto deboli, la maggior parte di queste masse in fuga è spesso del tutto ignara delle cause che l’hanno spinta a fuggire. Un grave ostacolo alla presa di coscienza del problema da parte di vittime innocenti e inconsapevoli, che oltretutto provengono da paesi che hanno un ruolo relativamente insignificante nelle emissioni di gas serra. Interessante a riguardo anche il dato di un recente studio di Christian Aid che afferma che i dieci stati più affamati del mondo producono lo 0,08% della CO2 globale. Questo significa, ad esempio, che un russo in media produce la stessa CO2 di 454 burundesi, un americano di 581 e un saudita di 719.

Infine, un grande rischio è che nei paesi d’approdo i migranti che non provengono da zone di conflitto vengano catalogati come migranti economici, categoria che lascia forse intendere una volontarietà nella scelta di migrare e, nella travisata ma tristemente efficace propaganda di alcuni leader, perfino una furberia, un tentativo di vivere alle spalle del civilizzato Occidente.

Molti esperti ammettono che sarà sempre più difficile categorizzare i profughi, risparmiandoli al calderone della migrazione volontaria. Michael Renner, ricercatore americano esperto in connessioni tra ambiente e conflitti, afferma che “i problemi ambientali sono spesso strettamente intrecciati con condizioni socioeconomiche come povertà e diseguaglianza di possesso di terre, dispute per le risorse, progetti di sviluppo mal pianificati e governance deboli”.

Ma un bagliore di speranza resta acceso; il già citato report Ipcc afferma infatti che azioni coraggiose e condivise a livello globale nel contrasto al riscaldamento globale potrebbero ridurre le cifre dell’esodo dell’80%. La palla è dunque nelle mani dei governi: la politica avrà il coraggio di sfidare lobbies, interessi e resistenze di ogni genere per fronteggiare le disastrose conseguenze del global warming?

In attesa di risposta, a noi non resta che far sentire la nostra voce, uniti dietro i segnali di allarme che la comunità scientifica continua a lanciarci. Non ci resta che esortare i leader mondiali a fare scelte che tutelino la sopravvivenza sull’unico pianeta che abbiamo, partendo dai più deboli, dai più indifesi, dai popoli che per primi stanno realmente subendo i disastrosi effetti dell’Antropocene.

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