Cinema

Venezia 76, Catherine Deneuve ultima grande diva ne La Verité di Kore-eda

Gruppo di famiglia di cinematografari in un interno con Juliette Binoche e un monumentale Ethan Hawke

di Davide Turrini

Catherine Deneuve ultima grande diva. Non si dovrebbe mostrare più nulla dopo la sublime performance della star francese ne La Verité del giapponese Kore-eda Hirokazu. Qualunque altra attrice perderebbe il confronto. Nel film d’apertura che inaugura con classe Venezia 2019 la 75enne interprete di Bella di giorno recita praticamente sempre da seduta. Con le dovute e sottolineate eccezioni di una passeggiata con il cagnetto, di un paio di scatti in piedi per dare due peregrini baci al genero, di una caduta fortuita che fa sobbalzare lo spettatore.

Gruppo di famiglia di cinematografari in un interno, potrebbe essere la tag-line de La Verité. Nella casa magione della celebre attrice Fabienne (la Deneuve), apparentemente isolata e attorniata da alberi e piante, anche se in piena Parigi, arriva da New York Lumir (Juliette Binoche), la figlia che fa la sceneggiatrice negli Usa; il di lei marito Hank (Ethan Hawke), un mezzo e buffo attorucolo yankee da serie tv; e la loro figlioletta bionda e saltellante che crede a nonna come ad una strega capace di far trasformare animali in persone e viceversa. Attorno a Fabienne gironzolano da inferiori il maggiordomo tuttofare “che assomiglia a quell’attore inglese sir…”) e l’ultimo bonario marito letteralmente cuoco e stuoino di casa. Sul tavolo alcune copie della biografia ufficiale della donna appena stampate. Fabienne è una diva assoluta. Elegantemente vanitosa, amabilmente presuntuosa, regalmente despota. E soprattutto, come rileva Lumir, ha raccontato diverse balle su come si è comportata con amore da mamma quando la figlia era piccina. Inoltre Fabienne deve iniziare a girare un film tutto al femminile dove diventerà per qualche istante in scena persino figlia (anziana) di un’altra giovane star emergente.

È qui che inizia la “detection” familiare di Kore-eda (ricordiamolo, Palma d’oro a Cannes nel 2018 con Un affare di famiglia). Carotaggio di un rapporto femminile in famiglia che sfiora sornionamente presenza e scarsissima importanza di tutti gli uomini in scena, e che non porta mai ad esplosioni d’ira o rilevanti colpi di scena. Attenzione, non siamo di fronte a qualcosa di “noioso” o “palloso”, bensì ad uno scivolamento delicato e gentile attorno alla possibile “verità” trasmessa da Fabienne: una donna che sembra scippare, come un’elegante e algida ladra di anime, le emozioni dalla sua vita per poter “recitare” al massimo nei film senza però dare indietro qualche straccio di sentimento alla figlia come ai suoi tanti mariti.

“Preferisco essere una pessima madre e amica, ma una buona attrice”, afferma la donna lapidaria. Colori autunnali smorzati e leggermente offuscati, set apparentemente impermeabile agli esterni e suddiviso in tre quattro ricorrenti interni, La Verité, primo film di Kore-eda girato dopo vent’anni di carriera fuori dal Giappone, ha il dono di una solida levità intimista, di un’elegante e dettagliata messa in scena, e di un senso dell’ironia che tende a non far mai sfociare nessuno screzio della trama in tragedia. Lo stile “giapponese” del nostro non subisce alcuna modifica. Il tocco naturalistico e magico di Kore-eda si riconosce e palpita anche nella livida Parigi (che cos’è la poesia di una sequenza con il confronto rapido tra una Deneuve sola al ristorante cinese e a qualche tavolo di distanza una famiglia orientale che festeggia l’anziana mamma?). Là dove un regista hollywoodiano avrebbe chiamato un’acida Bette Davis o un’iraconda Shirley Maclaine per interpretare Fabienne, Kore-eda opta per una signora tutta d’un pezzo che alza sicuramente il gomito ma che non perde mai il rispetto di se stessa.

La Deneuve recita da padrona: si fa attendere quando per qualche istante non è in scena; diverte quando sentenzia sul mestiere dell’attrice (“quando un’attrice ha perso la battaglia sullo schermo si butta nella realtà facendo politica”); è buffa quando elogia le colleghe Garbo, Signoret e Darrieux ma fa spallucce sulla Bardot; commuove quando sul set del film da girare sembra aver compreso gli effetti del suo distaccato atteggiamento casalingo. “Non ho voluto creare un family drama, ma una storia d’amore tra una madre e una figlia”, spiega Kore-eda in una delle più mosce conferenze stampa della storia del Lido. “Non volevo arrivare a dare delle risposte, ma mostrare che l’esistenza va avanti, con le protagonista che si accettano l’una con l’altra così come sono. Nel film si crea della magia e c’è anche una piccola bugia ma la famiglia va avanti e si evolve”. Se poi vi capiterà di seguire questo film senza fretta e magari in lingua originale noterete quanto è monumentale l’interpretazione secondaria di Ethan Hawke. Assoluto comprimario, giocoso e ubriacone, stereotipo del dozzinale americano che fa un po’ di arte strimpellando la chitarra, assiste con ingenua ilarità al balcone della quotidianità il dialogo tra moglie e suocera che gli deve sempre essere tradotto dal francese. Chapeau (anche se da cowboy).

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