Neanche una settimana di tempo per sfiduciare il primo ministro. La sospensione di 5 settimane del Parlamento britannico, chiesta ed ottenuta da Boris Johnson, ha scatenato l’opposizione laburista e liberale che ora è determinata a presentare una mozione di sfiducia nei confronti del leader conservatore. I tempi sono risicatissimi. Le Camere torneranno a riunirsi il 3 settembre e chiuderanno nuovamente il 9, solo 6 giorni durante i quali presentare il documento e cercare di approvarlo. “Sarà uno scontro parlamentare storico”, rivela il Guardian. Altrimenti se ne parlerà il 14 ottobre, dopo il “Queen’s Speech” quando ormai i giochi sulla Brexit saranno definiti.

La corsa labour e l’appoggio dei tories ribelli – Tecnicamente, ci sono da convincere i tories “ribelli”, l’ala conservatrice che vuole evitare il ‘no deal‘, l’uscita senza accordi dall’Unione europea e che era pronta a firmare l’impegno per Johnson di togliere l’opzione dal tavolo della trattativa, motivo che ha portato alla mossa “shock” del primo ministro. La spinta potrebbe arrivare dalla sollevazione avvenuta nella giornata di mercoledì, con la petizione sul sito del Parlamento che nel giro di 24 ore ha superato 1,5 milioni di firme e le manifestazioni di piazza organizzate in 10 città in tutto il Regno Unito. E una spinta potrebbe arrivare dallo speaker della Camera dei comuni, John Bercow – teoricamente imparziale ma in quota conservatori – che ha definito l’azione di Johnson un “oltraggio costituzionale“. Proprio alla House of Commons, Johnson ha una maggioranza più che risicata: un solo parlamentare.

Una spinta potrebbe arrivare da Ruth Davidson, la leader dei conservatori scozzesi che oggi ha formalizzato le sue dimissioni dal partito. “Inevitabilmente – ha scritto – molto è cambiato nel corso degli anni della mia leadership, sia personalmente che nel più ampio contesto politico. Mentre non ho nascosto il conflitto che ho sentito sulla Brexit, ho cercato di tracciare un corso per il nostro partito che riconoscesse e rispettasse il risultato del referendum, cercando nel contempo di massimizzare le opportunità e mitigare i rischi per le attività e settori chiave scozzesi”.

Il boccino dunque è nelle mani del leader dei Labour, Jeremy Corbyn, che nella giornata di mercoledì aveva anche scritto alla Regina Elisabetta chiedendole un incontro per scongiurare la ratifica della sospensione. Tutto vano, fin qui. Resta il fatto che anche una sfiducia formale potrebbe non neutralizzare l’azione di Boris. Secondo fonti di governo consultate dallo stesso Guardian, infatti, l’inquilino di Downing Street comunque non si dimetterebbe prima della Brexit. “Siamo stati molto chiari – spiegano al quotidiano inglese – sul fatto che se c’è un voto di sfiducia, (Johnson) non si dimetterà. Non vogliamo le elezioni, ma se dobbiamo fissare una data, sarà dopo il 31 ottobre“. In base al Fixed Parliamentary act, un premier sfiduciato ha molta flessibilità nello scegliere la data del nuovo voto, qualora non si trovasse un governo alternativo nelle due settimane successive alla sua sfiducia. Certo, un primo ministro senza fiducia parlamentare seduto al tavolo delle trattative con l’Unione europea non sarebbe il massimo, ma la spregiudicatezza dimostrata da Johnson in queste settimane potrebbe superare anche questo apparente imbarazzo.

Il fronte scozzese: ricorsi in tribunale e le spinte indipendentiste – C’è poi aperto il fronte legale, aperto dall’ex primo ministro John Major. Anche qui del tutto teorico, perché non è possibile presentare ricorsi rispetto alle prerogative personali della Regina. Nonostante questo, il tribunale civile scozzese sta già esaminando un esposto contro la sospensione del Parlamento presentato da Joanna Cherry, deputata del Snp, il Partito nazionale scozzese. E poi c’è il precedente di Gina Miller, l’imprenditrice 51enne che ha già vinto un ricorso alla Corte suprema inglese contro i ministri britannici, sostenendo che l’uscita dall’Unione europea – così come avvenuto per l’ingresso – doveva essere stabilita da un atto legislativo del Parlamento e che non c’era l’obbligo di assecondare la volontà popolare espressa con il referendum. La stessa Miller ha presentato un ricorso all’Alta Corte, chiedendo il pronunciamento prima del 9 settembre.

Resta sempre aperta anche la questione degli altri stati del Regno Unito. Repubblica, ha intervistato l’autorevole storico William Dalrymple, scozzese e unionista, che nel 2014 si è schierato per il “remain” nel referendum che ha spinto i discendenti di William Wallace a rifiutare la secessione dalla Regina. “Altri tempi – ha detto Dalrymple al corrispondente del quotidiano italiano – È cambiato tutto. A causa di quello che è accaduto ieri e del ‘no deal’ sempre più vicino, anche il Regno Unito potrebbe spaccarsi definitivamente dopo secoli. E io, da sempre unionista, la prossima volta voterò per l’indipendenza. Non mi faccio governare da questi estremisti inglesi“.

E nella giornata di giovedì, è arrivata anche la terza azione legale contro il provvedimento voluto da Boris Johnson. L’ha presentata da Raymond McCord, un attivista per i diritti delle vittime delle violenze in Irlanda del Nord (suo figlio fu ucciso da una formazione paramilitare unionista). L’azione afferma che la decisione dev’essere bloccata perché il ‘no deal’ metterebbe a rischio l’accordo di pace del Venerdì santo in Ulster.

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