Il 29 agosto 1991 veniva assassinato il pioniere della lotta al racket, "ucciso dalla mafia e dall'omertà", come recita un cartello che la famiglia cambia a ogni anniversario. Il caso dei commercianti bengalesi di via Maqueda, rinata dopo le denunce e le condanne degli estorsori
In via Vittorio Alfieri, poco distante del cuore commerciale e turistico di Palermo, su un manifesto di carta appeso al muro di un palazzo si legge: “Uomo coraggioso, ucciso dalla mafia, dall’omertà dell’associazione degli industriali, dall’indifferenza dei partiti e dall’assenza dello Stato”. Oggi questo manifesto verrà sostituito. Come ogni 29 agosto del resto. Lì, 28 anni fa fu ucciso Libero Grassi uno dei primi imprenditori a ribellarsi alla richiesta di pizzo da parte di Cosa Nostra. Lì, non ci sono lapidi in pietra simili a quelle che commemorano le vittime di mafia nel luogo dell’omicidio e di cui Palermo, dunque, è tappezzata. C’è un pezzo di carta, sostituito ogni anno. Così ha voluto la famiglia.
Era il 1991, spararono a Libero Grassi alle sette e mezze di mattina mentre si dirigeva al lavoro e proprio per il lavoro lui aveva lottato. Oggi a Palermo, esattamente come ventotto anni fa, si paga ancora il pizzo, o meglio la “messa a posto”, come si dice in Sicilia. Perché se vuoi lavorare in città, così come in altre parti dell’isola, ti devi accordare con Cosa Nostra. Ti devi mettere a posto. Oggi, però, come allora, c’è anche chi segue l’esempio di Libero Grassi: non paga e denuncia.
Così hanno fatto i commercianti stranieri, per lo più bengalesi, di via Maqueda, la via che a Palermo collega il Teatro Massimo alla stazione centrale. Per loro il 2019 è l’anno della libertà: nel 2016 un gruppo di bengalesi denunciò i suoi estorsori e ad aprile di quest’anno il tribunale di Palermo ha emesso 8 condanne per “estorsione continuata e aggravata dal metodo mafioso”. Condanne inflitte a membri di una famiglia palermitana del quartiere di Ballarò non affiliata a Cosa Nostra ma, come raccontano i volontari di Addio Pizzo, lasciata libera dagli esponenti del mandamento di agire indisturbata sul territorio.
«Ho aperto la mia attività nel 2008 nel quartiere di Ballarò – racconta un commerciante bengalese che per ragioni di sicurezza resterà nell’anonimato –. Il giorno dopo l’apertura ho ricevuto minacce. Mi hanno detto che se volevo stare tranquillo in quartiere dovevo pagare. Resisto alcuni anni, nel 2015 trasferisco la mia attività in centro, in via Maqueda. Qua inizia l’inferno». Più volte a settimana a turno quattro o cinque ragazzi entravano nei negozi. Minacciavano, picchiavano e pretendevano soldi, un compenso settimanale di qualche centinaia di euro e degli extra per il barbiere e la spesa. «La via era sempre deserta. Nessun turista, nessun cliente. Noi commercianti per paura restavamo aperti la mattina e al pomeriggio abbassavamo la saracinesca. Eppure avevamo bisogno di lavorare. Non ci restava altro da fare che denunciare oppure andarcene».
Così nel 2016 i commercianti stranieri di via Maqueda chiedono aiuto ad Addio Pizzo, l’associazione che assiste le vittime di racket. «Scopriamo che in via Maqueda c’era un forte clima di oppressione nei confronti dei commercianti stranieri – spiega Salvatore Caradonna, legale e volontario di Addio Pizzo –. Erano in undici a chiedere soldi facendo uso delle armi, non esattamente nello stile di Cosa Nostra che limita la violenza per non rischiare l’intervento delle forze dell’ordine. Abbiamo accompagnato i commercianti in questura per la denuncia e poi li abbiamo assistiti durante tutto il processo. Processo che si è concluso con una sentenza di condanna». Oggi via Maqueda è rinata. Dall’infermo al paradiso: la strada, resa pedonale, è ora frequentata dai turisti. I negozi restano aperti fino a tarda notte. Senza pericolo, senza paura.
Ogni anno a Palermo ci sono più di 300 arresti per estorsione aggravata. Segno che qualcosa negli anni sta cambiando. «A Palermo l’attività estorsiva è tipica territoriale di Cosa Nostra – spiega il procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Palermo Salvatore De Luca –. Con una duplice funzione, quella di provvedere a rifornire le casse dei mandamenti mafiosi e di controllare il territorio. All’interno di Cosa Nostra bisogna distinguere i profitti derivati dalle attività dell’organizzazione criminale da quelle dei singoli associali.
Le attività dei singoli, lecite o illecite, non vanno a finire nelle casse di Cosa Nostra. Ecco dunque che la “messa a posto”, sebbene non sia l’attività più lucrosa, diventa fondamentale all’organizzazione criminale per far fronte ai costi dei processi e aiutare le famiglie dei detenuti. Fondamentale per mantenere la coesione di Cosa Nostra». E aggiunge: «Resta però da sottolineare come la “messa a posto” sia anche un cavallo di troia per l’organizzazione perché, dal punto di vista statistico, il maggior numero di arresti effettuati ogni anno è proprio per estorsione aggravata. Cosa Nostra lo sa: prima di estorcere soldi studia il commerciante e se questo risulta essere un soggetto capace di denunciare, lo si lascia in pace. Senza contare che la pressione dello Stato ha messo sulla difensiva i mafiosi. Con cauto ottimismo penso che siamo nella fase più alta e efficiente nel contrasto a Cosa Nostra».