Sono le 11 del 9 aprile 2006. In corso del Mezzogiorno a Foggia è una tranquilla giornata di lavoro per tutti i dipendenti della Amica, la società comunale che si occupa della pulizia delle strade. Gli operatori ecologici vanno e vengono dalla sede, i dirigenti firmano documenti e tengono riunioni negli uffici. Anche Ennio Corsico è nella sua stanza al primo piano del civico 9 di quel vialone che porta dritti in centro. È un distinto funzionario sulla cinquantina che neanche ventiquattr’ore prima ha fatto il suo mestiere. Ricevuta una segnalazione sull’assenteismo di un operaio in prova da pochi giorni, ha firmato una contestazione disciplinare: “Non raggiunge mai il posto di lavoro assegnato dopo aver timbrato il cartellino, mai trovato sul posto di lavoro, né in altro luogo, non svolge alcuna mansione lavorativa”, scrive lo scrupoloso manager. Per lui, Giuseppe Trisciuoglio, all’epoca 29enne, è un dipendente come tutti gli altri.
La spedizione punitiva – Improvvisamente la porta della sua stanza si apre, Corsico alza lo sguardo e si ritrova di fronte un uomo di 53 anni accompagnato da alcune persone. Forse due, forse tre. Lo zelante funzionario dell’Amica è talmente spaventato da non ricordarlo. Non sa chi siano, non li ha mai visti. Ma sa bene, Corsico, che non avrebbero mai potuto arrivare così al primo piano, perché le procedure aziendali sono chiare. Chiunque voglia accedere agli uffici deve fermarsi in portineria, spiegare di chi ha bisogno e perché, a quel punto viene avvisato l’usciere che chiede il via libera al funzionario interessato. Solo dopo tutti gli ok, il visitatore viene accompagnato dalla persona desiderata. Ma Federico Trisciuoglio non crede di essere uno qualunque e così dopo essere entrato nel giardino dell’Amica accompagnato dall’autista e dai suoi guardaspalle chiede qual è l’ufficio di Corsico e mette in atto la sua “spedizione punitiva”, come la chiama il gup del Tribunale di Bari, Ambrogio Marrone, nella sentenza, poi confermata in appello, che nel 2013 lo ha condannato a 7 anni e 2 mesi per estorsione aggravata dal metodo mafioso.
Il saluto deferente degli operai – Federico Trisciuoglio, boss della batteria Trisciuoglio-Prencipe-Tolonese e già condannato in via definita per associazione a delinquere di stampo mafioso, deve lavare l’onta di chi ha avuto il coraggio di contestare suo figlio Giuseppe. E tutti devono sapere cosa rischiano se gli mettono i bastoni tra le ruote. Dopo essere arrivato davanti a Corsico, pianta le mani sulla sua scrivania, lo fulmina con lo sguardo e lo minaccia: “Non devi dare fastidio a Trisciuoglio se no…”. Accenna a un sorriso di stizza, fa cenno ai suoi due scagnozzi di andare ed esce dalla stanza mentre il funzionario dell’Amica, nonostante lo spavento, riesce comunque a rispondere in qualche modo: “Ho fatto solo il mio dovere”. Nessuno interviene. Né il portiere né l’usciere. Sanno tutti chi è quell’uomo, tranne il funzionario. Che agitato si affaccia alla finestra e, racconterà ai poliziotti, vede Trisciuoglio rientrare nella sua vettura, ferma nel cortile aziendale con un autista, mentre attorno, come ad accompagnarlo verso la sua automobile, una schiera di operai dell’Amica pronti quasi a prostrarsi di fronte al boss per un saluto deferente.
La lettera minatoria e l’auto a fuoco – È così che la mafia foggiana intimidisce, in maniera “clamorosa e plateale”. Eppure “nessuno si è rivolto alla polizia – ricorda il giudice – pur essendo diventata di pubblico dominio nell’azienda” l’azione di uno dei più temuti boss della Società. Il pubblico ministero Giuseppe Gatti, l’uomo che da una vita prima nella procura della città e poi nella Dda di Bari dà la caccia ai mafiosi foggiani, ricostruirà questa storia solo nel 2010. È l’anno in cui Corsico, dopo tre anni di allontanamento volontario, torna all’Amica nel mese di febbraio. Appena riprende posto nel suo ufficio, in portineria viene lasciata una lettera: “Stronzo, te la faremo pagare”. Il funzionario la stringe nelle mani, la mette sul sedile della sua Saab Cabrio comprata da pochi giorni e rientra a casa. Durante la notte la sua autovettura va a fuoco. A quel punto, Corsico denuncia.
L’ammissione del dg: “Condizionato” – Non sa chi possa essere stato ma ora, sicuramente, sa anche lui chi sono Giuseppe e Federico Trisciuoglio. Racconta tutto alla polizia, lo ripete davanti ai magistrati che scoprono a quattro anni di distanza anche quanto era accaduto nella palazzina dell’Amica. Dove intanto Trisciuoglio junior è rimasto. Dopo la lettera di assunzione dell’aprile firmata dall’allora presidente della società, Colomba Mongiello, poi divenuta deputata del Pd, a settembre, nonostante altre tre contestazioni disciplinari, il direttore generale Michele Pagliara chiede il superamento del periodo di prova perché ha risposto “efficacemente e tempestivamente” alle disposizioni dei superiori. Otto giorni dopo arriva il via libera del consiglio di amministrazione. Pagliara racconterà ai magistrati: “Forte era in me, come in altri funzionari e dirigenti dell’Amica, il timore di poter subire ritorsioni personali e familiari” nel caso di contestazioni a Trisciuoglio. “Non ho quindi alcun problema ad ammettere che il contenuto della mia relazione è stato pesantemente condizionato dallo stato di paura e soggezione in cui io e l’azienda tutta versavamo”. Tanto forte che “nessun avrebbe avuto il coraggio di mettere Triscuoglio fuori dall’azienda”.
Oltre 60mila euro per non lavorare – Ed è lì che ha “lavorato”, infatti, fino al blitz della Squadra mobile di Foggia “senza che nessun superiore muovesse alcun rilievo” e il rapporto di lavoro venisse interrotto nonostante le “gravi inadempienze”. Giornate in divisa pochissime, 66.511 euro netti incassati tra l’aprile 2006 e il maggio 2010 anche attraverso “l’inerzia dei funzionari, conosciuta e avallata dagli organi direttivi dell’azienda”, nessuno dei quali “proponeva o adottava iniziative finalizzate” al licenziamento. I suoi sorveglianti, sottolinea il gup nelle motivazione del giudizio di primo grado, non temevano le conseguenze di omissioni nei controlli, ma le possibili ritorsioni da parte di Trisciuoglio junior, per questa vicenda condannato a 4 anni e 10 mesi. Che infatti al rientro di Corsico lo aveva cercato, presentandosi sotto casa e nella sede dell’attività gestita dal figlio “con l’unica intenzione di intimorirlo”. E quando un suo superiore, stremato per le assenze, lo aveva invitato a presentarsi almeno entro l’orario di chiusura degli uffici per timbrare il cartellino, il figlio del boss aveva risposto con sarcasmo: “Ma mo ti metti a fare il direttore dell’Amica o ti metti a fare il vigilante? Una cosa devi fare nella vita, mica puoi fare tutte le cose. Hai detto fino alle due. Alle due me la vedo io se devo venire, tu fatti il tuo”.
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