E passi l’idea di una sparatoria western tra space rover lanciati cento all’ora sul suolo lunare (a noi è risultata vagamente kitsch, ma davvero passi), ma il resto della messa in scena, delle idee visive, del creare cinema, è come finito sui binari morti di un triste sciopero
Togliete il giocattolo della fantascienza dalle mani di James Gray. Ad Astra, terzo titolo in Concorso a Venezia 76, è una clamorosa delusione da consumare possibilmente non al secondo spettacolo della sera. La pesantezza e l’evanescenza di questo film sono direttamente proporzionali al tragitto lunghissimo di fuga dell’astronauta McBride (Brad Pitt, della sua straordinaria inespressività ne parliamo tra qualche riga): più il protagonista viaggia milioni di chilometri dalla Terra verso Nettuno, più Ad astra si inabissa nello spazio profondo dell’oblio. Non c’è autorialità che tenga. Gray ha girato un film esangue.
Precipitato con anonima rarefazione espressiva da decine di visioni fantascientifiche del passato più o meno recente, da 2001 di Kubrick al ben più riuscito – per rimanere dalle parti del Lido – First Man di Chazelle. Servito il cuore della trama ambientata in un “futuro prossimo”, con l’astronauta dal sangue freddissimo, incapace di provare emozioni di fronte a disgrazie ed incidenti, 47 battiti a riposo, a malapena 80 quando lo sfiora un meteorite grande cento volte lui, ecco profilarsi l’ennesimo viaggio astrale in cui raggiungere la Luna è roba da turisti con tanto di aeroporto e gate, mentre Marte è un po’ più problematica ma abbordabile vivendoci nei sotterranei rosso terriccio Roland Garros. McBride è chiaramente il top del suo settore. Ha mollato la moglie (“Non mi deconcentrerò su cose meno importanti”), non ha mai fatto figli, vive in una sorta di imperturbabile e silenziosa stasi. Un duro che mentre è a fare manutenzione di un satellite nell’esosfera e una tempesta elettrica lo travolge, cade vertiginosamente per centinaia di chilometri e ha la prontezza di riflessi di aprire un paracadute e salvarsi come facesse bangee jumping. Questa è però la piccola crepa che comincia a incrinare il vaso di certezze dell’imperturbabile McBride/Pitt. Verrà richiamato dagli alti vertici dell’aerospazio perché dovrà verificare di persona il grado di minaccia dei segnali lontanissimi provenienti da qualche antenna dalle disperse navicelle del Progetto Lima, capitanate trent’anni prima dal celebre padre astronauta anch’esso scomparso.
I soliti caschi a specchio su cui fare i controluce, la soggettiva dell’astronauta nei momenti di pericolo, l’ennesimo alien incapsulato in qualche velivolo in avaria (qui sono due famelici scimmioni), Gray e tutto il cast tecnico/artistico offrono un ribollito campionario di dejà-vù spaziale che nel 2019 fa pure venire un pochino i nervi. E passi l’idea di una sparatoria western tra space rover lanciati cento all’ora sul suolo lunare (a noi è risultata vagamente kitsch, ma davvero passi), ma il resto della messa in scena, delle idee visive, del creare cinema, è come finito sui binari morti di un triste sciopero. Se poi si rimastica perfino una sospensione sensoriale alla Tarkovsky (la seconda parte di film è un blocco indigesto di Pitt in solitaria alla ricerca del padre con nessuno attorno) e gli si appiccica un fantasmagorico ritorno a casa con tanto di scudo fai da te alla Superman per schivare meteoriti, la maionese espressiva impazzisce definitivamente.
In questo guazzabuglio di significati (la vicenda micro risolta nel macro; il desiderio di continuare a perseverare nella ricerca di qualche forma di vita aliena quando ci aspetta solo l’estinzione) il film non può che diventare un vuoto chiacchiericcio appoggiato ad un delirante miscasting: Liv Tyler piombata bella paffuta da Armageddon; Donald Sutherland e Tommy Lee Jones come fossimo dalle parti di uno spin off di Space Cowboys. E qui viene il bello, in senso estetico ma non performativo. Brad Pitt è il solito figaccione, qui in versione silente ed elucubrante, ma tentare di renderlo mito dal valore universale nel fluttuare del sistema solare è davvero una fatica cinematografica improba. Con quel musetto da maturo sex symbol Brad in Ad Astra offre semplicemente due espressioni: con o senza casco. Il resto è accumulo di pura noia. Nemmeno autocelebrativa dei propri intellettualismi, à la Guadagnino per dire. Solo terribilmente pasticciata.