I leghisti non mollano. Anzi, in qualche caso si preparano a fare quasi da “scudi umani” nei confronti dei provvedimenti della maggioranza nascente, formata dagli ex amici dei Cinquestelle insieme ai nemici di sempre del Pd. Il Carroccio difende infatti le sue undici presidenze di commissione che – come ha anticipato ieri dal Fatto Quotidiano – che potrebbero diventare un ostacolo non da poco nei percorsi parlamentari delle leggi della maggioranza nascente. “Dovevano pensarci prima di fare il ribaltone” ha tagliato corto ieri Claudio Borghi, che presiede la commissione Bilancio della Camera.

E dalla loro Borghi e gli altri 10 presidenti di commissione della Lega hanno i regolamenti di Camera e Senato che stabiliscono che il rinnovo delle commissioni avviene ogni due anni e per prassi a metà legislatura. Fatti i conti, dunque, in questo caso la guida degli organismi parlamentari che si occupano di preparare la gran parte dei testi di legge che poi finiscono nelle Aule resterà immutata nel migliore dei casi fino a giugno 2020, nel peggiore (per Pd e M5s) fino a novembre 2020. Il motivo è che i presidenti di commissioni vengono votati a inizio legislatura dalle maggioranze politiche e ora che la maggioranza è cambiata, però, non sarà automatica la variazione delle composizioni delle commissioni. Rischia di essere come sabbia nell’ingranaggio di lavorazione delle leggi del governo Conte 2.

Su questo, al ritmo delle accuse di “poltronari“, si è già consumata una prima battaglia polemica ieri tra gli esponenti del Pd e quelli della Lega. “Quelli disinteressati alla poltrona – twittava la vicecapogruppo del Pd al Senato Simona Malpezzi – In meno di 24 ore scopriamo che Salvini pur di tenersi il Viminale voleva Di Maio premier e che i leghisti non hanno alcuna intenzione di lasciare le presidenze delle 11 commissioni che spettano alla maggioranza. Strano vero? #Legapoltrona”. A rispondere è stato il capogruppo della Lega a Palazzo Madama, Massimiliano Romeo: “Che si dimettano loro da senatori visto che dovrebbero vergognarsi di fronte al popolo italiano per quello che stanno facendo”. Ribatte Valeria Valente, deputata renziana: “La Lega non molla le presidenze delle commissioni, anche se cambia la maggioranza parlamentare. Ma non erano quelli disinteressati alle poltrone?”. Anna Ascani, anche lei renziana, il cui nome gira anche per un posto da ministra della Cultura, sviluppa il ragionamento: “Da giorni – scrive su facebook – Salvini alimenta la sua propaganda sulle poltrone, senza peraltro ancora aver mollato la sua, così come non l’hanno ancora mollata i ministri leghisti. Perché continuano a non dimettersi?”. “Se davvero la Lega è tanto allergica alle poltrone – insiste la Ascani – perché i presidenti delle commissioni parlamentari non si dimettono dal loro incarico? Tra Senato e Camera ci sono 11 commissioni a guida Lega: i presidenti eletti coi voti dei parlamentari cinque stelle continueranno a presiederle anche se finiranno in minoranza?”. Nella serata di ieri anche il segretario della Lega, Matteo Salvini, si è ritrovato a dover rispondere alla domanda: “E’ un governo figlio di un ribaltone, in qualsiasi paese al mondo si sarebbe andato a elezioni e mi venite a parlare delle presidenze delle commissioni…”.

Come spiegava ieri il Fatto, la Lega ha 6 senatori presidenti di commissione a Palazzo Madama e 5 deputati presidenti di commissione a Montecitorio. E quasi tutti in settori centrali: dalla commissione Trasporti della Camera presieduta da Alessandro Morelli, fedelissimo di Salvini, alla commissione Finanze e Tesoro presieduta da Alberto Bagnai, economista euroscettico.

Alcune di queste presidenze sono cruciali: basti pensare alla Bilancio della Camera, dove dovrà essere “cotta” la manovra di bilancio; ma anche alla Finanze del Senato ed alla Affari Costituzionali di Montecitorio, dove dovranno essere “partorite” eventuali riforme costituzionali e della legge elettorale che – dicono le voci, ma anche una certa dose di prevedibilità – i partiti della nuova maggioranza vorrebbero modificare in un sistema proporzionale puro, cioè senza collegi (come invece prevede l’attuale Rosatellum). E un presidente di commissione che si metta di traverso – si ragiona ancora in alcuni settori parlamentari – può dare fastidio alla maggioranza, specie nei casi in cui essa non sia blindata nei numeri. A parte la decisione di essere più o meno flessibile nella applicazione del regolamento, al presidente compete anche la nomina del relatore, così come l’applicazione più o meno rigida delle ammissibilità degli emendamenti stralciando o facendo entrare norme; gestisce poi i tempi di esame e delle votazioni. Poteri importanti, insomma, che rischiano di rallentare il “governo delle novità” della prossima maggioranza giallo-rossa.

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