Cinema

Mostra del Cinema di Venezia, J’accuse è una bomba cinematografica e Roman Polanski è tornato

Il regista gira un filmone intrigante e in certi momenti perfino calligrafico nei dettagli come non faceva da anni, zeppo di star francesi tutte impettite e in delirio performativo, tirandoti addosso una delle più clamorose e ingiuste sentenze giuridiche della storia, anzi una vera e propria persecuzione ad personam

di Davide Turrini

Roman Polanski è tornato. Fisicamente assente al Lido, sgancia una bomba cinematografica che non lascia indifferenti. J’accuse, sul celeberrimo caso Dreyfus, in Concorso a Venezia 76, è il film che ti aspetti da lui nell’evo del #MeToo. Chiaro, il mantra di queste ore in laguna è quello di separare l’artista dall’uomo. Ed è quello che faremo nelle prossime righe recensendo il film. Però anche Polanski, accidenti, ti gira un filmone intrigante e in certi momenti perfino calligrafico nei dettagli come non faceva da anni, zeppo di star francesi tutte impettite e in delirio performativo, tirandoti addosso una delle più clamorose e ingiuste sentenze giuridiche della storia, anzi una vera e propria persecuzione ad personam.

Se qualcuno reputa che la tematica del film sia metaforicamente attinente all’uomo Polanski non lo dica a nessuno, ma si senta libero di pensarlo. Parliamo della vicenda del capitano dello Stato maggiore francese di origine ebraica, Alfred Dreyfus, che il 5 gennaio del 1895 venne giudicato colpevole di alto tradimento per aver diffuso segretamente documenti alle potenze nemiche e spedito a scontare pena eterna sull’isola del Diavolo in Sud America. Condanna che, dopo più di dieci anni, grazie alla coraggiosa e casuale indagine di un suo collega, il colonnello Picquart, alle roboanti campagne stampa dei quotidiani (ricordate a scuola il “j’accuse” dello scrittore Emile Zola?), e alle interrogazioni parlamentari, venne cancellata, con la riabilitazione nei ranghi dell’esercito del povero Dreyfus e il trasalimento degli omertosi e razzisti alti papaveri dell’Armée militare francese.

Polanski pesca nel mazzo l’asso del thriller, illustra con cura quasi maniacale spazio e riferimenti storici sottolineando che i dettagli del film sono tutti reali, poi imbastisce il tema classico della sua poetica cinematografica: la vittima incastrata in un meccanismo più grande di lei. Un po’ come nei suoi titoloni del passato, un fil rouge che passa da Rosemary’s Baby, Tess, L’inquilino del terzo piano, fino a Il pianista e Oliver Twist. Solo che in J’accuse la storia è raccontata dal punto di vista di un eroe per caso. Quel colonnello Picquart (Jean Dujardin) che aveva assistito alla degradazione di Dreyfus sulla pubblica piazza (sequenza iniziale di massa di notevole potenza espressiva e tecnica) e che poi finito a capo dei servizi segreti dell’esercito si imbatte senza volere prima in quello che è il vero traditore tra gli ufficiali e poi nella creazione di parecchie presunte prove tra cui perizie calligrafiche grossolane, documenti falsificati o persino inesistenti che però, con la scusa del segreto di stato, possono essere usati come accusa senza essere mostrati.

Dreyfus (un calvo Louis Garrel privato dei suoi riccioli neri), che vediamo pochino, se non in inserti vagamente fumettistici dall’isola del Diavolo, subisce tutto da incommensurabile capro espiatorio anche perché il razzismo classista dell’esercito sembra non avere remore. Picquart è invece il vero paladino che intraprende un percorso di giustizia di cui subisce lui stesso fino in fondo le conseguenze degradanti finendo prima trasferito e poi in carcere. Un personaggio che viene seguito meticolosamente dalla macchina da presa di Polanski ad ogni svolta di scrittura, dentro casa e in ufficio, nel rapporto clandestino con un’affascinante signora sposata (Emmanuelle Seigner), e nei più piccoli gesti di lavoro, in mezzo a spezzettate lettere, telegrammi, fogli, foglietti e fogliettini finiti nel pattume, ricomposti di continuo da solerti agenti segreti.

Il sadico cul de sac polanskiano però viene definitivamente forato, fino a far emergere non tanto una pura sopravvivenza della/e vittima/e, quanto un’attesa e catartica verità storica da stampare col fuoco. Lodevole, infine, il tentativo di mostrare la forza rivoluzionaria della stampa e dell’opinione pubblica poco più di cento anni fa. La seconda parte del film pone proprio al centro questo scarto più esuberante di tono, tra un’iniziale composto impianto da spy story e uno finale garibaldino da courtroom movie. A livello mimetico, tra colonnelli, generali e maggiori (ce n’è uno particolarmente odioso e traditore a cui Polanski non concede mai un sorriso) il cast è esemplare. Polanski appare come invitato che ascolta un concerto poco prima che il film finisca.

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