Il regista gira un filmone intrigante e in certi momenti perfino calligrafico nei dettagli come non faceva da anni, zeppo di star francesi tutte impettite e in delirio performativo, tirandoti addosso una delle più clamorose e ingiuste sentenze giuridiche della storia, anzi una vera e propria persecuzione ad personam
Roman Polanski è tornato. Fisicamente assente al Lido, sgancia una bomba cinematografica che non lascia indifferenti. J’accuse, sul celeberrimo caso Dreyfus, in Concorso a Venezia 76, è il film che ti aspetti da lui nell’evo del #MeToo. Chiaro, il mantra di queste ore in laguna è quello di separare l’artista dall’uomo. Ed è quello che faremo nelle prossime righe recensendo il film. Però anche Polanski, accidenti, ti gira un filmone intrigante e in certi momenti perfino calligrafico nei dettagli come non faceva da anni, zeppo di star francesi tutte impettite e in delirio performativo, tirandoti addosso una delle più clamorose e ingiuste sentenze giuridiche della storia, anzi una vera e propria persecuzione ad personam.
Dreyfus (un calvo Louis Garrel privato dei suoi riccioli neri), che vediamo pochino, se non in inserti vagamente fumettistici dall’isola del Diavolo, subisce tutto da incommensurabile capro espiatorio anche perché il razzismo classista dell’esercito sembra non avere remore. Picquart è invece il vero paladino che intraprende un percorso di giustizia di cui subisce lui stesso fino in fondo le conseguenze degradanti finendo prima trasferito e poi in carcere. Un personaggio che viene seguito meticolosamente dalla macchina da presa di Polanski ad ogni svolta di scrittura, dentro casa e in ufficio, nel rapporto clandestino con un’affascinante signora sposata (Emmanuelle Seigner), e nei più piccoli gesti di lavoro, in mezzo a spezzettate lettere, telegrammi, fogli, foglietti e fogliettini finiti nel pattume, ricomposti di continuo da solerti agenti segreti.
Il sadico cul de sac polanskiano però viene definitivamente forato, fino a far emergere non tanto una pura sopravvivenza della/e vittima/e, quanto un’attesa e catartica verità storica da stampare col fuoco. Lodevole, infine, il tentativo di mostrare la forza rivoluzionaria della stampa e dell’opinione pubblica poco più di cento anni fa. La seconda parte del film pone proprio al centro questo scarto più esuberante di tono, tra un’iniziale composto impianto da spy story e uno finale garibaldino da courtroom movie. A livello mimetico, tra colonnelli, generali e maggiori (ce n’è uno particolarmente odioso e traditore a cui Polanski non concede mai un sorriso) il cast è esemplare. Polanski appare come invitato che ascolta un concerto poco prima che il film finisca.