I tagli alle tasse di Trump sono stati soprattutto un maxi regalo per gli azionisti delle grandi aziende, con effetti limitati sulla crescita degli investimenti. Quello che tanti avevano sospettato “a naso”, trova più autorevole sostegno negli studi di alcuni economisti del Fondo monetario internazionale. Una prima analisi dei risultati della sforbiciata fiscale è stata pubblicata da Emanuel Kopp, Daniel Leigh e Suchanan Tambunlertchai in un working paper (che non riflette necessariamente la posizione del Fondo) nel maggio 2019. La tesi è stata però rilanciata e rinforzata lo scorso 8 agosto sul blog del Fmi e inclusa nel documento istituzionale sull’economia a stelle e strisce. Nel dicembre 2017 il Congresso Usa ha varato una riduzione delle imposte sui profitti aziendali dal 35 al 21% e un più modesto taglio di aliquota per le persone fisiche dal 39,6 al 37%. Costo dell’intervento, stimato dal Congresso: 1.900 miliardi di dollari in 10 anni.
Come rilevano i tre economisti, dal 2017 ad oggi si è effettivamente registrato un aumento superiore alle stime degli investimenti in tecnologie, macchinari, nuovi software e nello sviluppo di brevetti. Tuttavia, secondo una più attenta analisi, questo dato è riconducibile in larga parte a un aumento della domanda. In sostanza prospettive di incremento delle vendite e ottimismo sul futuro sono le forze che determinano le scelte di investimento delle aziende mentre la politica fiscale conterebbe poco o nulla. I benefici delle sforbiciate alle aliquote d’impresa finiscono dritti nelle tasche degli azionisti. In particolare, secondo lo studio, tra le aziende quotate sull’S&P500 (il principale listino azionario di Wall Street) appena il 20% dei risparmi garantiti dalla riforma fiscale si è tradotto in investimenti e risorse per ricerca e sviluppo. Il rimanente 80% è stato destinato a dividendi e riacquisto di azioni proprie (un modo per fare salire il valore del titolo, sempre a beneficio dei soci).
Secondo il Fondo le imprese, quelle grandi in particolare, possono agire in questo modo grazie alla crescita del loro potere di mercato. Ossia l’incremento della concentrazione consente alle imprese, entro certi limiti, di dettare le proprie condizioni sul mercato, di approfittare di rendite di posizione, senza dover fronteggiare una concorrenza accanita. Quindi viene meno la necessità di investire per superare i concorrenti. In un altro studio condotto sempre dal Fmi, si stima che tra il 1980 e il 2016 i margini di profitto sulle vendite delle aziende quotate di paesi sviluppati siano saliti in media del 39%. Una crescita che ha interessato tutti i paesi e tutti i settori. L’aumento si associa solitamente ad un iniziale aumento degli investimenti a cui segue però una discesa. Così come scende la quota dei profitti destinata alla forza lavoro.
Dario Stevanato, docente di diritto tributario all’università di Trieste, spezza però una lancia a favore dell’operazione voluta da Trump: “L’Fmi muove dalla premessa che comunque un aumento degli investimenti c’è stato. E non bisogna dimenticare che la ricchezza distribuita a tanti azionisti sotto forma di dividendi o aumento del valore di titoli può aver contribuito a spingere la domanda”. Premiare gli azionisti significa in ogni caso beneficiare fasce di popolazione che possiedono asset finanziari. Ossia, in genere, i ceti benestanti che già avevano avuto un vantaggio dalla riforma fiscale. “Soldi che comunque sono comunque stati almeno in parte investiti a beneficio dell’intera economia”, spiega però Stevanato. “Del resto”, aggiunge il tributarista, “la riforma non ha mai dichiarato finalità redistributive e comprende anche una tassazione ridotta sui profitti che le aziende statunitensi avevano accumulato all’estero. Penso sia presto per capire con chiarezza tutti gli effetti che ha prodotto. Trovo condivisibili le critiche che riguardano la tempistica della riforma, applicata in una fase di espansione, sarebbe forse stato meglio giocarsi questa carta in un momento di difficoltà dell’economia. Peraltro, prima della riforma, la tassazione Usa era superiore a quella di molti paesi, ora è stata riallineata”.
A questo proposito è opportuno segnalare come, secondo le ultime rilevazioni del centro studi di Mediobanca, il prelievo che grava sui profitti delle aziende italiane medio-grandi si collochi al oggi in media al 19,7%, dunque al di sotto anche del prelievo Usa post riforma. Un dato che stride con il luogo comune secondo cui sarebbero sottoposte ad un regime fiscale punitivo. In particolare tra il 2015 e il 2018 il cosiddetto “tax rate” è sceso dal 26,6 al 19,7%. “In questa discesa fotografata da Mediobanca hanno inciso probabilmente anche le agevolazioni di provvedimenti come Industria 4.0”, spiega sempre Stevanato. “Inoltre”, rileva il professore, “non bisogna dimenticare che negli anni in cui scendeva il prelievo sugli utili, aumentava quello su dividendi e capital gain a carico degli azionisti”. Più in generale, riflette Stevanato, è opportuno ragionare a fondo su quali siano i tagli di tasse maggiormente indicati per favorire un rilancio della crescita a seconda dei differenti sistemi in cui vengono attuati. In alcuni casi sono preferibili tagli vincolati all’effettivo impiego di risorse per gli investimenti.
Nel 2017, contestualmente al varo della riforma fiscale il segretario al Tesoro statunitense Steven Mnuchin affermò che il taglio avrebbe prodotto una spinta alla crescita economica tale da far aumentare il gettito, nonostante la riduzione delle aliquote. È il principio della famosa o famigerata curva di Laffer, dal nome dell’economista che l’ha concepita Arthur Laffer che la concepì nel 1974. La curva di Laffer funge da sostegno anche alle ipotesi di flat tax, l’aliquota unica che elimina la progressività del prelievo, a beneficio principalmente dei redditi più elevati. Peccato che la teoria non abbia mai trovato conferme nella pratica. Ci provò ad esempio Ronald Reagan negli anni 80, facendo esplodere il deficit Usa. Il punto è che secondo studi recenti, il livello di prelievo che genera il gettito più elevato è molto alto, intorno al 70%. Tutti i paesi Ocse stanno oggi ben al di sotto di questo valore: ulteriori riduzioni comportano quindi quasi sicuramente una perdita di introiti per lo Stato.
Forse anche per queste ragioni il nuovo intervento fiscale allo studio della Casa Bianca per scongiurare una possibile recessione, sembra si concentri soprattutto sulla riduzione del prelievo sui redditi da lavoro dipendente. In particolare, secondo indiscrezioni non confermate, nel mirino ci sarebbe la tassa federale del 6,2% sulle buste paga che serve per finanziare i programmi