Lo scandalo dei Panama Papers raccontato in un film. Lo so, già si è scatenato il fuggi fuggi. Invece The Laundromat di Steven Soderbergh, in Concorso a Venezia 76, ha il pregio di rendere briosa, appetibile e divertente una delle truffe finanziarie più clamorose e tecnicamente complesse del nuovo secolo. E come? Tenetevi forte: i due eleganti protagonisti, Mossack (Gary Oldman) e Fonseca (Antonio Banderas), titolari dell’omonima società offshore panamense dove si ripulisce denaro, lo si nasconde al fisco e lo si moltiplica e lo si fa scomparire in un amen, parlano in macchina allo spettatore più e più volte. Esempio pratico a livello visivo. Sequenza d’apertura.
In mezzo al deserto i due in smoking e con un Martini in mano fanno una rapida carrellata su come si sono trasformate le transazioni economiche nei secoli. Mentre passano a fianco di un gruppo di cavernicoli, che con una banconota pensano a farsi un fuocherello, ecco sciorinare l’evoluzione dal baratto tra banane e mucche, l’ideazione di carta moneta, fino all’invisibile e astratta presenza odierna di azioni, bond, futures, derivati. Mossack e Fonseca (la vera società al centro del vero scandalo ndr) scendono nel frattempo una rampa di scale ed entrano in un night sottolineando che i “servizi” che loro offrono non sono tanto diversi da quelli di un qualsiasi advisor di una banca. La dimensione surreale e finanche grottesca viene comunque ricondotta a quello che diventa il filone narrativo principale estremamente realistico. L’anziana Ellen Martin (Meryl Streep) è appena rimasta vedova dopo che la barchetta turistica su cui viaggiava con il marito, vicino alle cascate del Niagara, si è improvvisamente ribaltata. L’uomo, come altre venti persone, è morto annegato.
Tempo di asciugarsi le lacrime che si attivano le pratiche di rimborso assicurativo. Il dolore non si allevia di certo, però quel denaro più aiutare figlia e nipotini. Solo che, a loro insaputa, i barcaioli si rifanno ad un contratto assicurativo che è diventato cartastraccia. “Non abbiamo fatto nulla di illegale, abbiamo solo risparmiato, acquistando la polizza che costava meno”. Mica mentono. È che purtroppo la polizza è finita a nome di una società assicurativa inesistente, invischiata nelle scatole cinesi dei paradisi offshore. Ellen non si dà per vinta e a suo modo rimette insieme i pezzi della criminale truffa economica-finanziaria. Non tanto per il classico moto di giustizia individuale e/o collettiva da cinema di genere, quanto per aiutare lo spettatore a sbrogliare la matassa apparentemente ridicola, ma materialmente devastante, di quei Panama Papers che vennero alla luce all’improvviso nel 2015 grazie alla gola profonda “John Doe” travolgendo governanti e industriali di mezzo mondo.
Basandosi sul libro Secrecy world di Jake Bernstein, Soderbergh costruisce un caleidoscopico e sgargiante affresco geograficamente esteso oltre Stati Uniti, Panama e lo staterello paradiso fiscale pure lui di Nevis, dove hanno pari spazio le sequenze con il dialogo diretto di Mossack e Fonseca verso il pubblico, Ellen/Streep che affranta e determinata cerca un barlume di verità, ma anche altri set tra Africa e Cina dove le conseguenze del diventare prestanome per le società offshore porta perfino alla morte. Certo è che se la dimensione della farsa alleggerisce e rende chiari i dettagli dello scandalo, allo stesso tempo risulta un armamentario stilistico un po’ macchinoso per far spiccare il volo a The Laundromat facendolo finire tra i titoli più importanti di un regista che amiamo davvero tanto. “Per fare intrattenimento con un tema così complesso ci voleva o Bertold Brecht o Steven Soderbergh – ha spiegato in conferenza stampa la Streep, come sempre straordinaria addirittura in un “doppio” ruolo. “Attenzione però, pur avendo negli Stati Uniti luoghi come il Delaware, il Nevada e il Wyoming, dove questa truffa può essere attuata senza andare contro la legge, in questo film non si parla solo di malefatte americane bensì di una collusione globale. Tanto che nello scandalo Panama Papers vennero e sono coinvolti decine di stati, tra cui Cina, Malta, Islanda. E sono sicura che in questa stanza dove stiamo parlando ora c’è sicuramente qualcuno che ha investito in qualche società offshore senza saperlo”.