In un tempo in cui si discute molto dei simboli religiosi e della loro strumentalizzazione, il vescovo di Noto, monsignor Antonio Staglianò, chiede di superare quello che definisce “il cattolicesimo convenzionale”. Quella che può sembrare solo una provocazione è, invece, un vero e proprio allarme lanciato dal presule, noto per la sua “Pop-Theology” e le sue omelie nelle quali cita, anzi canta, le canzoni di Marco Mengoni, Noemi, Francesco Gabbani e altri artisti famosi contemporanei. Del resto anche il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della cultura, ama citare sul suo profilo Twitter alcuni versi dei brani di Sanremo.

Il pensiero di monsignor Staglianò è racchiuso nel suo ultimo libro che si intitola Oltre il cattolicesimo convenzionale. L’umanità di Gesù, verità, senso, libertà per tutti (Elledici). Il vescovo precisa cosa intende con questa espressione. Si tratta di “una religione vuota di carità e dunque – per dirla con le parole di San Giacomo – una ‘fede morta’. Una fede che lascia praticare i riti sacri, le assemblee liturgiche, le feste religiose, le devozioni e le ‘tradizioni popolari’, ma non converte i cuori delle persone, non fa incontrare Gesù nei sacramenti (oggi troppo spesso ‘appaltati’ alla mentalità consumistica del centro commerciale) e, dunque, non accompagna le persone e le comunità alla pratica dell’amore”.

L’obiettivo di Staglianò è offrire una risposta alla questione fondamentale: “Come vincere il narcisismo dell’anima e andare oltre il cattolicesimo convenzionale, vivendo una fede che operi attraverso la carità e sia capace, come chiede Papa Francesco, di ‘uscire, andare, accompagnare, discernere, accogliere’?”. Parole che fanno pensare, per esempio, ai tanti cattolici praticanti che alle scorse elezioni europee hanno votato per la Lega nonostante le posizioni di Matteo Salvini sui migranti siano assolutamente inconciliabili col Vangelo. Ma anche alla strumentalizzazione dei simboli religiosi nel dibattito politico.

Staglianò non risparmia una dura critica a coloro che, senza mezzi termini, definisce “praticanti non credenti”. “Chi fa il bene e si esibisce – spiega il presule – ha già ottenuto la ricompensa nel ‘plauso della gente’, nell’ammirazione conseguente, e rischia di coltivare una malattia diffusa in tutti (ma particolarmente presente in chi ritiene di non averla): il narcisismo dell’anima. Questa malattia trasforma tutto in una grande specchiera, perché dovunque si guardi si possa riconoscere la propria ‘bella’ faccia. Anche questo appartiene al ‘cattolicesimo convenzionale’ che ospita in sé forme sottili di spiritualità mascherata: quando la maschera è tolta (e prima o poi capita) si vede subito che non è Dio a essere adorato, ma sempre il proprio io”. E ciò, come ha sottolineato spesso anche Bergoglio, non risparmia nemmeno gli ecclesiastici: preti, suore, vescovi e cardinali.

Nel libro, il vescovo risponde anche alle critiche che gli sono piovute addosso per aver cantato durante le omelie (tra l’altro con un’intonazione perfetta) alcune canzoni di musica leggera, a volte anche accompagnandosi con la chitarra. Sempre, però, con riferimenti inerenti al tema sviluppato durante le meditazioni, con lo scopo di catturare l’attenzione del giovane uditorio “svecchiando la predica” e fare così in modo che il messaggio del Vangelo non solo passi, ma resti impresso nelle menti.

“C’è chi – spiega in merito il presule – sta all’ombra del Papa e si limita a citare quello che dice, ma non si sforza di metterlo in pratica. E c’è chi invece ‘vuole stare convintamente dalla sua parte’ e s’inventa qualcosa per dare carne al suo magistero missionario tra i giovani. Con la ‘Pop-Theology’ cerco di spiegare quello che sto facendo con i giovani della mia diocesi di Noto e i giovani dei vescovi che mi invitano. Anche se capita di cantare e suonare qualche canzone, è evidente a tutti che non sono un cantante, ma un predicatore del Vangelo. Tanti sono gli apprezzamenti, ma le critiche non mancano e d’altronde resta vero quello che Nietzsche disse: ‘Coloro che furono visti danzare, vennero giudicati pazzi da quelli che non potevano sentire la musica’”.

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