Non si sono mai capiti. Philippe Noiret parlava in francese, Massimo Troisi in una lingua tutta sua. Dialogarono davanti a una telecamera e al mare per 11 settimane, e tirarono fuori le “metafore”. Le ricordiamo quasi tutte, a 25 anni di distanza dal debutto di quel film (1 settembre 1994, Festival di Venezia). Mario Ruoppolo che dice di sentirsi “una barca sbattuta in mezzo a tutte queste parole” e fa la prima metafora della sua vita. Che chiede al maestro Neruda “come… così, come si diventa poeta?”. Che racconta di quando ha visto l’amata Beatrice Russo e non gli è venuto niente, “neanche una parola. La guardavo e mi innamoravo”. Che ci insegna che “la poesia non è di chi la scrive, ma di chi gli serve”. E che già quando ci mettiamo a cercarla, abbiamo iniziato a trovarla.
Massimo Troisi la cercò con quel suo ultimo film. Lesse il romanzo di Antonio Skármeta, se ne innamorò, comprò i diritti cinematografici e chiamò il regista Michael Redford per discutere con lui la sceneggiatura e la regia. Mentre l’Italia è sconvolta dalle mazzette di Tangentopoli e dalle bombe a Falcone e Borsellino, Troisi se ne va dall’altra parte del mondo, in un hotel vista mare a Santa Monica, Los Angeles. Con Redford inizia a lavorare insieme alla sceneggiatura. Opera delle piccole modifiche alla trama originale, quel tanto che basta per stravolgerla: un uomo disoccupato e figlio di pescatori viene assunto come postino personale di Pablo Neruda, poeta cileno esiliato sull’isola. Ne nasce un’amicizia, e la scoperta della poesia da parte del postino.
A fare Neruda chiamano Philippe Noiret, a fare i pescatori un gruppo di attori napoletani sui 70 anni ciascuno. Iniziano le riprese, che dureranno tre mesi tra Pantelleria, Salina e Procida. Il terzo giorno, Massimo collassa a terra. Il suo cuore non sta bene, da quando è nato. Si gira poche ore al giorno, e le sue inquadrature restano spesso strette. Redford lo fa andare persino in uno studio del suono a Cinecittà per registrare i dialoghi, nel caso non ce la faccia. Nelle scene in cui Mario Ruoppolo se ne va in giro a registrare i suoni sull’isola, Massimo Troisi non compare mai. La mano che regge il microfono puntato alle scogliere e alle stelle è quella di un altro. Nelle scene in cui è in bici, il corpo è quello di Gerardo, un ventenne di Sapri che gli assomigliava in modo impressionante, chiamato in fretta e furia dalla produzione per fare da controfigura nelle scene più pesanti. È lui quello che pedala sotto il sole di Procida, o si ferma ad ammirare il tramonto in cima alla collina, con quella bici tra le mani. Durante le riprese, la moglie di Gerardo è incinta. Gerardo ricorda come Massimo si avvicinava a lei e “giocava con il copione del film: ‘Come sta Pablito? Mi raccomando, lo dobbiamo chiamare Pablito’, che era il nome del figlio del Postino”. Il giorno dopo la fine delle riprese, Massimo morì, a casa della sorella a Ostia. Qualche settimana dopo nacque il figlio di Gerardo. Non lo chiamò Pablito. Lo chiamò Massimo.
Venticinque anni dopo, restano un film ancora visto in gran parte del mondo, un Oscar per la colonna sonora vinto, un po’ di milioni in tasca al produttore Harwey Weinstein e il più bel racconto cinematografico di cosa sia la ricerca della poesia. È quando Massimo, nella prima scena del film, si riguarda una cartolina dell’America seduto sul letto mentre fuori albeggia; quando si mette il cappello da postino tre giorni prima, per fargli prendere la forma della testa (“Una cosa nostra, di noi postini…”); quando stira il foglio bianco di un quaderno alla ricerca di un’ispirazione che non arriva; quando cerca di essere qualcosa e quando realizza di non esserne mai stata nessuna. “Come poeta, non valgo niente. Come postino, come comunista, neanche valgo…”, commenta in una delle scene finali del film Mario Ruoppolo. Il Postino è rimasto memorabile perché era tutto e niente: era pescatore, ma raffreddato; postino, ma provvisorio; comunista, ma titubante; cuoco, ma inesperto. Era un uomo “stanco di essere uomo”, che a un certo momento della vita si prese un quaderno e provò a scrivere una poesia. E la trovò cercandola.