Cinema

Venezia 2019, Sull’infinito dell’umoristicamente depresso Roy Andersson. La vulnerabilità dell’anima in 29 tableux vivants a camera fissa

Il sesto lungo in 50 anni del 76enne regista svedese, fa parecchio sorridere. A cinque anni dal folgorante Leone D’Oro per Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, Andersson torna alle sue adorate inquadrature fisse e all’emotiva vulnerabilità dei suoi protagonisti che esonda dal quadro

di Davide Turrini

Dicono che i film di Roy Andersson spingano alla depressione. Eppure About endlessness/Sull’infinito, il sesto lungo in 50 anni del 76enne regista svedese, fa parecchio sorridere. A cinque anni dal folgorante Leone D’Oro per Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, Andersson torna alle sue adorate inquadrature fisse e all’emotiva vulnerabilità dei suoi protagonisti che esonda dal quadro. Abbiamo contato 29 tableaux vivants a questo giro. Ovvero 29 inquadrature con macchina da presa immobile, attori spesso immobili anch’essi, brevissimi ed essenziali scambi di battute.

Chi conosce la filmografia di Andersson ha già capito che Sull’infinito è “ambientato” nello spazio contiguo di Un piccione… che a sua volta era contiguo spazialmente a You the living (2007), a sua volta nuovamente da Canzoni dal secondo piano (2000). Un bar, una tavola calda, una stanza da letto, una cucina, un ambulatorio, un ufficio, un supermercato del pesce. Tutto scambiabile, ma tutto sempre incredibilmente differente. Spazi, luoghi, quadri che Andersson imbibisce di una palette di grigi cromaticamente mai visti in nessun altro set cinematografico. All’interno dell’inquadratura le linee di pavimenti, muri, marciapiedi, vetrate, risultano sempre diagonalmente irregolari rispetto a scontate e frontali rette perpendicolari. E poi ecco i fulminanti squarci sull’esistenza esemplificati in dialoghi ridotti all’osso.

Ci sono, tra gli altri: una coppia di spalle su una panchina guarda lo skyline urbano e dopo parecchi secondi lei dice a lui: “è già settembre”, e lui: “mmmhhh”; una nonnina sulle scale di un palazzo tenta lentamente di fare una foto al nipotino provando a seguire sempre un po’ fuori sincrono i movimenti che il papà sta facendo fare al bebè in braccio; un prete piagnucola di aver perso la fede davanti ad un corpulento psicologo che però lo invita a tornare dopo una settimana. Solo un paio le differenze/variazioni rispetto alle strutture basiche dei precedenti titoli: l’aggiunta di una voce fuori campo che spesso sul finale descrive la sequenza che si è svolta sempre alla stessa maniera (“ho visto un uomo che… ecc”); manca un vero e proprio numero musicale che solitamente concede un moderatissimo movimento all’interno dell’inquadratura che rimane rigorosamente sempre fissa. Impossibile descrivere il cinema di Andersson con le parole, ma sempre ipnotico e divertente seguirlo, oltretutto per una durata ancora una volta minima (qui 76 minuti). Onore delle armi, infine, per l’originalissima e compassionevole sincerità con cui mostra le angosce dell’animo umano senza mai cedere di un millimetro alla sua peculiare messa in scena. “Nei miei film evito l’ombra. Creo delle immagini dove i personaggi non possono nascondersi – ha spiegato Andersson – un film che amo molto è Ladri di biciclette, un film triste ma meraviglioso perché vero”.

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