Evocare Cesare Lombroso può apparire fuori luogo e indelicato per celebrare la grandezza di Peter Lindbergh, il celebre fotografo mancato a 74 anni. Provo a chiarire: in qualche misura tutti i fotografi sono un po’ “lombrosiani”, nel senso che a furia di scrutare, scandagliare e fotografare volti umani, si allenano a trovare nella fisiognomica qualcosa di “parlante”, qualcosa di rivelatore. Nulla della volontà di Lombroso di classificare, schedare, condannare, piuttosto un istinto a cogliere aspetti della personalità.
Capita anche a me e, avendo potuto avvicinare molti grandi fotografi, ogni volta ho notato – non appaia ovvio e banale – che il loro sguardo, i loro occhi, sono sempre, e dico sempre, incredibilmente profondi, penetranti, mobili, assetati, e anche febbrilmente inquietanti nella loro voracità. Ricordo quelli di Henri Cartier-Bresson, quelli di Sebastião Salgado, quelli di James Nachtwey, quelli di tanti altri e poi quelli di Peter Lindbergh: chiari di un colore indefinibile, e hanno visto il futuro.
Essere in anticipo, essere avanti, spesso crea salite in termini professionali: più semplice allinearsi, seguire il vento e le tendenze senza rischiare troppo. Ma come si fa a dirlo a gente come Lindbergh, quando la prudenza e il già visto non possono appartenere agli spiriti liberi, ai maestri e agli apripista? La carriera di Lindbergh è lunga ma soprattutto intensa, e non stiamo qui a ripercorrerla perché già ovunque la trovate e perché sarebbe comunque parziale.
Ma in quel 1990, precisamente nel numero di gennaio, ancora Vogue nell’edizione inglese pubblica una sua fotografia che diventa epocale e che determina un prima e un dopo. È una rivoluzione copernicana, una svolta, un ribaltamento che segnerà la moda, il costume e anche una nuova consapevolezza femminile. Appena usciti dagli anni 80 – il decennio del glamour, dei nuovi stilisti, della moda come obbligo sociale – su quella copertina Lindbergh fotografa, in un sobrio bianconero, le top model del momento: Linda Evangelista, Cindy Crawford, Naomi Campbell, Christy Turlington e Tatjana Patitz. Ma sono al naturale, cinque ragazze e amiche che si divertono senza pose assassine o ruffiane, quasi del tutto struccate.
Se oggi ci guardiamo intorno, però, tutto sembra indicare l’apparire come unica chiave del mondo: si muore per un selfie, si corre ai casting dei talent, si cerca spasmodicamente un like e bimbetti di cinque anni dichiarano di voler fare, da grandi, gli youtuber. Dunque sembrerebbe smarrita quella lezione di genuinità fatta di jeans, magliette bianche, scarpe da tennis e visi al naturale con altrettanto naturali espressioni e sorrisi.
Sono ottimista: molti segnali indicano che sempre, dopo baldorie, euforie e ubriacature varie, là si torna: alle cose autentiche, vere e rassicuranti. Questione di tempo. D’altronde, abbiamo detto, gli occhi di Peter Lindbergh vedevano il futuro.