Il 6 settembre 2004 l'imprenditore cinematografico è diventato il nuovo proprietario della società partenopea, costretta a ripartire dalla Serie C dopo l'ennesimo fallimento. Da allora a oggi, Adl è stato protagonista assoluto di una risalita (calcistica e manageriale) che ha portato gli azzurri a diventare un club modello nonostante la gestione familiare. Con buona pace dei tifosi che lo contestano perché in realtà ha vinto poco, meno di Lotito alla Lazio
Un’estate passata a sognare James e Icardi, a segnare l’acquisto più costoso della storia per 45 milioni di euro e un’estate passata ad aspettare le notizie che arrivavano dal tribunale di Napoli, sezione fallimentare, quando tutta la società valeva meno di 30 milioni di euro, altro che i 45 di Lozano. In mezzo quindici anni: tanto è passato da quando Aurelio De Laurentiis, alle 18 e 30 del 6 settembre 2004 è uscito coi suoi legali dal tribunale di Castelcapuano col Napoli in tasca. Vulcanico, impulsivo, spesso geniale, in quell’estate “Adl” decise di cominciare da apprendista del calcio: consegnando chiavi, dirigenza e potere decisionale a Pierpaolo Marino, direttore generale di ritorno a Napoli dopo aver mosso lì i primi passi come allievo di Italo Allodi in epoca maradoniana. Si partì dalla Serie C e dal ritiro di Paestum, con Ventura ma senza i palloni, dettaglio e circostanza che torneranno spesso nella narrazione delaurentisiana successiva ai primi anni, di piena luna di miele con Napoli e i suoi tifosi.
Brucerà le tappe e gli obiettivi in quei primi anni Adl: avrebbe voluto raggiungere la A in 5 anni, ne bastarono 3, l’Europa già assaporata dopo l’ottimo decimo posto all’esordio da presidente nel massimo campionato, il San Paolo che torna a essere inespugnabile per “gli squadroni” del nord. E poi la seconda fase: l’addio di Marino, perché ormai l’apprendistato è finito e l’Adl presidente ama essere protagonista e non stare dietro le quinte. Imprenditore illuminato, con idee geniali, in quindici anni De Laurentiis dimostrerà spesso di avere idee vincenti non solo per il suo Napoli, ma anche per il calcio: la sua squadra è tra le poche a gestione familiare e senza multinazionali alle spalle che primeggia stabilmente in uno dei massimi campionati europei, molte proposte che in un primo momento apparivano fantascientifiche sono state accolte e divenute strutturali (il terzo sponsor sulla maglia, le clausole rescissorie, la panchina lunga ad esempio). Se il Napoli per anni, con un monte ingaggi inferiore anche della metà a squadre come Milan o Inter o Roma è arrivato a stare stabilmente davanti a queste società, contendendo anche scudetti alla ben più attrezzata Juventus si deve senza ombra di dubbio alla capacità e all’intuito del suo presidente: acquisti sempre mirati di giovani che hanno voglia di emergere, e perché no da rivendere a prezzi maggiorati (molto maggiorati) piuttosto che vecchie glorie pesanti in campo come sui bilanci, poche “toppe” prese su questo tipo di investimenti (giusto Vargas), intuito nel proseguire nel verso giusto piuttosto che nel verso che piace (un Sarri allora sconosciuto in panca e non Montella o Emery che piacevano di più).
Sul lato tecnico, solo per fare qualche esempio si contano Lavezzi, preso a 6 milioni dal San Lorenzo e rivenduto a 30 al Psg, Cavani preso a 16 milioni dal Palermo e dato per 64 milioni alla stessa società francese, e ancora Higuain, chiuso da Benzema al Real, preso a 32 milioni e rivenduto a 90, Jorginho a 7 dal Verona col Chelsea che stacca un assegno da 65 milioni per accaparrarselo. E ancora: la capacità di rendere strutturale il merchandising e il brand nel mondo per tenere il bilancio sano e in attivo senza ricorrere solo alle plusvalenze (che pure sa far bene, basta guardare agli ultimi due mercati dove grazie anche al ds Giuntoli ha piazzato Pavoletti, Zapata, Rog, Inglese e altri, tirando su un gruzzolo di circa 150 milioni). Insomma: un 8 in pagella per la gestione societaria Adl dopo 15 anni di presidenza lo merita tutto. Sarebbe da 10 se oltre ai dati eccellenti legati al risultato sportivo il presidente fosse intervenuto anche sulle strutture: più volte annunciato negli anni, lo stadio di proprietà non è mai arrivato, e oggi la casa del Napoli è ancora il San Paolo in convenzione, reso migliore dai 25milioni circa investiti dalla Regione Campania per le Universiadi ma con tutti i limiti di uno stadio in centro città, costruito negli anni ’50 e che non offre grosse possibilità di sviluppo.
Resta il voto altissimo all’imprenditore dunque, che paradossalmente però è anche la causa del voto basso che gli viene affibbiato da parte della tifoseria: una passione spinta per il segno più a bilancio e le vittorie viste come un’eventualità, un qualcosa che può arrivare ma senza scervellarsi (e svenarsi) per ottenerlo. “Noi vogliamo vincere” è stato infatti il coro sovente dedicato al presidente quando con la squadra in lotta per lo scudetto con gli eterni rivali della Juve, non c’è stato quello sforzo sul mercato tale da modificare un esito che di fatto è stato sempre lo stesso: la Juve campione, il Napoli secondo. Perché a dispetto di una squadra a tratti sorprendente, in grado di spaventare non solo la Juve in Italia, ma le ben più blasonate big d’Europa, facendo quasi fuori il Chelsea futuro campione all’esordio in Champions, così il Liverpool e poi suonandole al Borussia, all’Arsenal, fermando il Bayern e il Psg, la bacheca di Adl è povera. Due Coppe Italia, una con Mazzarri e una con Benitez, e una Supercoppa, vinta ancora con lo spagnolo: ha vinto di più Lotito alla Lazio, con 3 Coppe Italia e due Supercoppe. Dal canto suo Adl non ne fa un cruccio: ricorda di aver salvato il Napoli dal fallimento, di aver comprato i palloni quando non c’erano manco quelli (per la verità il primo pallone con cui giocò il suo Napoli era di Cataldo Montesanto, centrocampista, tra i pochi reduci della vecchia squadra fallita), e di non voler far fallire di nuovo il Napoli. In un mondo del calcio sempre più guidato da multinazionali e da presidenti ricchissimi ma praticamente invisibili, uno come Adl che c’è e che se vuole scomparire ferma un tizio in motorino e scappa via, rumorosamente e alla sua maniera, è senz’altro da apprezzare: vincesse pure uno scudetto dall’apprezzamento si passerebbe alla statua equestre…o in motorino magari.