Lorenzo Fioramonti è il ministro dell’Istruzione del governo Conte 2. Già viceministro del leghista Marco Bussetti nel governo precedente, il pentastellato Fioramonti ha ora preso le redini del ministero. Abbiamo già avuto modo di confrontarci con lui, quando, con ammirabile candore, aveva invitato i precari della ricerca a non votare il suo partito. Un’uscita infelice – o un lapsus freudiano – che aveva tentato di disinnescare rivendicando l’assoluta priorità delle questioni universitarie per il governo gialloverde.

Negli stessi giorni l’allora ministro degli Interni Matteo Salvini, tutt’altro che nuovo a uscite anti-intellettuali di varia natura, definiva le università “serbatoi elettorali e sindacali”. A dispetto dei paradossi di un governo di fatto controllato da un uomo che si era sempre scagliato contro “i professoroni”, avevamo chiesto a Fioramonti di mettere mano alla legge Madia, che prometteva di integrare i precari della ricerca, ma si applicava a conti fatti a una fetta minima della categoria. Lui aveva risposto che nel 2020 avrebbe chiesto un aumento di 100 milioni di euro per i finanziamenti all’università. Al 2020 il governo non ci è arrivato, e le promesse sono rimaste tali.

Durante il suo mandato, però, Fioramonti non è rimasto con le mani in mano. Ad esempio, è stato tra i promotori di un osservatorio sulla trasparenza dei concorsi universitari, affidato all’ex inviato de Le iene Dino Giarrusso. Un ente-fantasma, che a oggi non ha prodotto niente se non un assist all’idea fallace che il principale problema dell’università italiana sia la trasparenza anziché il sottofinanziamento cronico.

Non solo: in un’intervista rilasciata a Il Messaggero a marzo, Fioramonti aveva paventato una riforma del pre-ruolo che avrebbe limitato per legge a cinque anni il tempo concesso a un ricercatore tra il conseguimento del dottorato e l’accesso al ruolo. “Dopo o vinci un concorso per una cattedra, oppure ti trovi un altro lavoro”. Ipse dixit. Un indurimento dei precetti di Mariastella Gelmini che ne conserva la logica darwiniana: come si risolve il precariato? Eliminando i precari. Più che una promessa, una minaccia.

E proprio la tendenza di Fioramonti a fare promesse ci lascia un po’ perplessi. L’ultima è di un paio di giorni fa (“un miliardo per l’università entro Natale o mi dimetto!”) ed è talmente grandiosa da sembrare finta, soprattutto se si considera che l’ultima legge di bilancio faceva registrare un timido 0,5% di aumento nei finanziamenti all’università.

Forse il neoministro ha intenzione di ricavare questo miliardo dalla proposta fiscale che l’ha reso noto: la cosiddetta tassa sulle merendine. Al di là dell’appellativo sfortunato con cui l’idea di Fioramonti è passata alla storia, la sugar tax o sin tax è un modello di tassazione, basato sull’imposizione di accise sui consumi dannosi per la salute come bevande zuccherate o merendine, già adottato in Europa e nel mondo.

Di questa proposta, più che l’aspetto folkloristico, ci sembra pericoloso il presupposto. Non solo si tratta di una forma di tassazione che molti considerano regressiva – che colpisce, cioè, in modo sproporzionato poveri e ricchi – ma, se applicata come tassa di scopo per risolvere i problemi dell’università, rischia di rinforzare la narrazione per cui i fondi necessari a risolvere i problemi della ricerca devono essere raccolti con iniziative straordinarie.

Certo, l’università italiana è in una situazione straordinaria (straordinari i numeri del precariato, straordinario il carico di lavoro e responsabilità assegnato a ricercatori e ricercatrici non strutturati, straordinarie le disuguaglianze nell’accesso allo studio e al lavoro), ma le soluzioni possibili sono del tutto ordinarie. L’ultima legge di bilancio del precedente governo Conte prevedeva 6,7 miliardi di euro per la riforma delle pensioni e 40 milioni di euro per l’università. Una disparità di erogazione di fondi, segno di una evidente volontà politica, che sembra difficile risolvere con le merendine.

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