Uno dei limiti del reddito di cittadinanza, come abbiamo già notato in un precedente editoriale, è che vuole prendere troppi piccioni con una fava. Questo è un errore, poiché mentre si raggiunge un obiettivo (la lotta alla povertà) si rischia di mandare all’aria l’altro (la lotta alla disoccupazione). Facciamo qualche esempio concreto.

Per combattere la povertà, non è detto che sia opportuno dare un reddito di cittadinanza pari proprio alla soglia di povertà: i fantomatici 780 euro. Purtroppo, per definizione, questa somma è di gran lunga superiore a quanto viene concesso in altri paesi, compreso la famosa Germania che viene spesso evocata nei racconti mitologici dei grillini.

In Germania, il sussidio di disoccupazione si dà a chi ha perso il lavoro; è su base assicurativa e ammonta a circa il 60% dello stipendio che si percepiva quando occupati, se single, oppure fino al 67% se si ha prole. Per godere del sussidio deve rispettare delle condizioni, soprattutto quella di svolgere una serie di azioni di ricerca attiva del lavoro. Quando finisce il sussidio su base assicurativa, se si è ancora alla ricerca di un lavoro, si riceve un sussidio pari al 57% dello stipendio precedente se si hanno figli o il 50% se non si hanno figli.

Dopo c’è un sussidio pari ad una somma fissa erogata dal comune di residenza. Anche in questo caso bisogna dimostrare di cercare lavoro e fare lavori richiesti dal comune. Questo ultimo sussidio di cittadinanza è di durata quasi indefinita, ma ammonta ad una somma abbastanza bassa, credo intorno ai 450 euro mensili, più alloggio e riscaldamento. E il costo della vita in Germania è più alto che in Italia.

In effetti, il Rei dei governi di centro-sinistra era più vicino al concetto tedesco – sostegno alla povertà – e anche come entità. Invece, un reddito di base che porti tutti a 780 euro può avere alcuni effetti controproducenti.

Il principale è quello di disincentivare la ricerca del lavoro. Il provvedimento del reddito di cittadinanza va confrontato con una situazione nel mercato del lavoro nella quale il reddito da lavoro è molto basso soprattutto per i più giovani con meno esperienza di lavoro e qualifiche più basse. Gli stipendi di un lavoratore stagionale del turismo è intorno ai 7-800 euro al mese in molte località. Ci si può lamentare del fatto che si tratti di uno stipendio troppo basso, ai limiti della sussistenza e, infatti, uno stipendio del genere dà vita al fenomeno della working poverty – di cui abbiamo parlato in alcuni editoriali precedenti – vale a dire la condizione di chi sì lavora, ma per un reddito inferiore alla soglia della povertà.

I lavoratori del turismo, peraltro, sono già un gradino al di sopra dei platform workers o riders e anche di molti lavoratori di call center. A questi ultimi si offre spesso un salario inferiore alla soglia della povertà e quindi al reddito di cittadinanza. È, pertanto, una scelta razionale quella del giovane che rifiuta di fare quei lavori per i quali la percezione del reddito comporta una forte disutilità non solo in termini di tempo e fatica, ma anche di attività alternative che si possono fare. Molti giovani, potendo farlo, preferiscono percepire il reddito di cittadinanza senza lavorare. Non è una scelta sbagliata, in linea di principio, se il tempo sottratto a questi lavori a bassa paga e a bassa produttività viene impiegato per investire seriamente nella propria formazione professionale e nella ricerca attiva di un lavoro più adatto alle proprie caratteristiche di istruzione e di qualifica professionale.

Alla visione neoclassica per cui il sussidio di disoccupazione è solo un disincentivo al lavoro, si contrappone nella letteratura una visione alternativa che io condivido pienamente: si deve al compianto Tony Atkinson, economista inglese scomparso da poco, e al suo coautore, John Micklewright. I due autori hanno sostenuto che oggi la ricerca di un lavoro comporta molti costi per i giovani e quindi un sussidio può aiutare. Io condivido questo punto di vista, che non esclude quello neoclassico a ben vedere, poiché non nega che si disincentivi la ricerca di un qualunque lavoro a breve.

Ma allora, il mio suggerimento è: invece di dare solo soldi e non avere alcun controllo sul loro uso, anche perché impossibile, non sarebbe più semplice ed efficace prevedere lo stesso sussidio della Germania (450 euro) più un rimborso spese per la partecipazione a corsi di formazione professionali erogati da soggetti specializzati? Enti di formazione, scuole e università. Insomma, invece del solo sussidio si potrebbe pensare ad un’integrazione sotto forma di voucher formativi, che potrebbe anche stimolare la produzione di servizi di qualità.

Il giovane potrebbe rivolgersi al proprio centro per l’impiego chiedendo di autorizzare una certa attività formativa e il centro può autorizzare o meno con un voucher che viene poi riscosso dal centro di formazione, scuola o università. Anche scuole e università dovrebbero essere in grado di partecipare all’offerta di corsi di formazione professionale, master e così via. Questo servirebbe anche a far ripartire i centri per l’impiego e trovare un lavoro ai navigator.

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