Il crollo dei rendimenti, legato agli annunci della Bce e al cambio di maggioranza che ha ridotto la percezione del "rischio Italia", ha subito scatenato appetiti: fioccano ipotesi su come usare il “tesoretto”, per ora solo teorico. Quasi quanto basta per finanziare il taglio al cuneo fiscale a 20 milioni di lavoratori. E gli effetti positivi sono anche indiretti: l'aumento del valore dei titoli rafforza i bilanci delle banche aprendo spazi per maggiori prestiti
State calmi, se potete. Dopo l’ufficializzazione dell’accordo di governo tra M5s e Pd, i rendimenti dei titoli di Stato decennali sono scesi per la prima volta nella storia sotto l’1% e da allora hanno continuato a calare. E scatenato appetiti: fioccano ipotesi sull’uso che si potrebbe fare del “tesoretto” che si risparmierebbe grazie ai minori interessi da pagare. Ma di quali cifre stiamo parlando? In prospettiva miliardi di euro. Ma, al momento, i numeri sono molto incerti e quindi, in larga misura, solo ipotetici. Il Documento di economia e finanza redatto la scorsa primavera dal ministero dell’Economia stimava per quest’anno una spesa per interessi sul debito pari a 64 miliardi di euro. Lunedì scorso lo stesso Tesoro ha fatto però sapere che la discesa dei tassi registrata da maggio ha garantito risparmi per 800 milioni. E se i livelli rimarranno quelli degli ultimi giorni, secondo la Banca d’Italia si possono prevedere minori spese per circa 11 miliardi tra 2020 e 2022.
Un passo indietro. All’inizio del 2019 un Btp decennale pagava infatti cedole del 2,8%, un valore rimasto sostanzialmente stabile fino a maggio. Poi la Banca centrale europea ha prospettato nuove limature ai tassi e aperto alla possibilità di una ripresa del quantitative easing, l’acquisto di titoli di Stato e obbligazionari. I rendimenti di tutta l’aera euro sono così stati spinti velocemente verso il basso. Il tasso sul Btp decennale a inizio agosto era dimezzato (1,4%) rispetto ad inizio anno. In paesi come Germania, Olanda o Austria anche i titoli con scadenze più lunghe sono finiti addirittura in territorio negativo. Chi finanzia riceve indietro meno soldi di quanto ha prestato: il prezzo della sicurezza. L’Italia conservava però lo stigma che l’affligge da quando sono circolate le indiscrezione sull’esistenza di un piano per l’uscita dall’euro. Un fattore di rischio aggiuntivo che si traduce nella richiesta di interessi più alti per sottoscrivere i nostri titoli. L’8 agosto è scoppiata la crisi di governo. I rendimenti dei Btp decennali sono risaliti rapidamente fino a quasi il 2%. Quando ha iniziato a prospettarsi la possibilità di una maggioranza alternativa, refrattaria a tentazioni di “Italexit”, il rendimento è precipitato sotto all’1% e sceso sotto lo 0,9% a cavallo della presentazione del nuovo esecutivo.
Ricapitolando, per gli 800 milioni di risparmi sinora accumulati il merito va alla Bce. Per quelli che dovessero maturare d’ora in poi avrebbe un peso anche il cambio di maggioranza. I frutti non saranno immediati. Buona parte dei collocamenti in programma per il 2019 sono già stati effettuati e gli interessi sui titoli che verranno venduti nei prossimi 4 mesi inizieranno ad essere pagati non prima del 2020. Secondo i calcoli di Banca d’Italia una riduzione dell’1% del tasso medio all’emissione, protratta nel tempo, produce un risparmio sugli interessi dello 0,1% del Pil nel primo anno, dello 0,2% nel secondo e dello 0,4% nel terzo. Tradotto in miliardi di euro significa 1,6 miliardi nel 2020, 3,2 miliardi nel 2021, 6,4 miliardi nel 2022. Circa 11 miliardi in 3 anni, quasi quanto basta per finanziare il taglio al cuneo fiscale a favore di 20 milioni di lavoratori di cui si discute in questi giorni e su cui a breve dovrà prendere una decisione il nuovo titolare del Tesoro Roberto Gualtieri.
Attualmente ci sono sul mercato titoli di Stato italiani per circa 2mila miliardi di euro: per l’84% si tratta di Btp con durate tra i 3 e i 50 anni. Il costo medio del debito (ossia il tasso medio ponderato su tutte le scadenze) è del 2,8%. Bisogna considerare che nel calcolo di questo tasso entrano anche titoli emessi 5, 10 o più anni fa quando i rendimenti erano molto più alti. Ancora nel 2007 il valore medio era del 4,1%, e fino al 2012 è stato di circa il 3%. Nel 2018 il tasso medio delle nuove emissioni è stato invece pari all’1,07%. Ma se nella prima metà di maggio si fermava allo 0,65%, nei 7 mesi successivi si è attestato all’1,48%.
Il prossimo anno andranno rifinanziati con nuove emissioni (che quindi risentono in positivo delle ultime riduzioni dei tassi) Btp per circa 200 miliardi di euro. Se i tassi si manterranno sui livelli attuali o scenderanno ulteriormente i risparmi potrebbero essere, come abbiamo visto, di un paio di miliardi. Risparmi che, è bene ribadirlo, sono al momento in buona parte virtuali. Se i rendimenti italiani dovessero prossimamente tornare a crescere, questi soldi sparirebbero come neve al sole. Dal calo dei tassi derivano anche benefici indiretti, principalmente attraverso il canale bancario. Le banche italiane possiedono Bot e Btp per circa 400 miliardi di euro. Un aumento del valore di questi titoli – inversamente proporzionale ai tassi – rafforzerebbe la solidità degli istituti di credito e la discesa dello spread migliorerebbe le condizioni di accesso al mercato, aprendo spazi per maggiori erogazioni a favore dell’economia reale.