C’è un elemento della figura di Mike Bongiorno che mi ha sempre colpito e che mi pare degno di una riflessione ancora a dieci anni dalla sua morte. Si tratta dell’uso della sua immagine, del suo personaggio, addirittura del suo nome come simbolo, metafora, metonimia della televisione. C’è, per esempio, un libro, molto bello, di Nanni Delbecchi che ricostruisce la storia della critica televisiva in Italia e guarda caso si intitola La coscienza di Mike. Ce n’è un altro, scritto da Edmondo Conti in collaborazione con Nicolò Bongiorno, uno dei figli di Mike, che è ancora più esplicito. Si intitola spiritosamente Tutta colpa di Mike e nella quarta di copertina recita: “E’ tutta colpa di Mike se è nata la televisione pubblica e privata in Italia”.

Qualche anno fa lo stesso Nicolò, ospite di una trasmissione a cui anch’io partecipavo, fece un’osservazione che mi colpì. Si parlava, in occasione del cinquantenario della sua pubblicazione, della famosa Fenomenologia di Mike Bongiorno di Umberto Eco e Nicolò osservò con una certa ironia come l’immagine di Mike, già scomparso da qualche anno, avesse nella storia della tv italiana un ruolo assai più forte del geniale saggio del grande semiologo. Insomma, alla lunga Mike aveva battuto anche Eco.

Ora, in questo giorno del decennale della scomparsa, al di là dei ricordi e degli omaggi, mi sembra interessante riflettere sulla validità di questa identificazione tra l’intera televisione italiana e uno dei suoi personaggi più popolari. Dunque, la cosa mi pare indiscutibile per quanto riguarda il primo periodo, quello dei pionieri e degli artefici dell’affermazione della tv nel nostro paese. Mike, dopo le peripezie giovanili tra Torino e New York, l’apprendistato giornalistico, la rocambolesca partecipazione alla Resistenza, l’esperienza in radio, inaugurò letteralmente la televisione italiana.

Alle 14.30 del 3 gennaio 1954 condusse la prima trasmissione del regolare palinsesto Rai. Si chiamava Arrivi e partenze e mandava in onda una serie di interviste realizzate all’aeroporto di Roma con quelli che, molto più tardi, si sarebbero chiamati vip, in viaggio tra la capitale e varie destinazioni internazionali. Il suo capolavoro di quegli anni fu Lascia o raddoppia? Un programma mitico capace di coniugare tutte le diverse finalità del nuovo servizio pubblico: divertimento ricco di emozioni, divulgazione del sapere, raccolta di storie di vita. In quel periodo, però, è bene non dimenticare una trasmissione meno nota ma non meno importante, Campanile sera, una gara di competenze e abilità varie tra gli abitanti di piccole città italiane, che doveva servire a portare la tv nella provincia profonda e a rafforzare il sentimento di appartenenza nazionale.

Anche nel periodo successivo, quello che comincia nel 68 e si conclude con la riforma del 76 la presenza di Mike fu di un assoluto rilevo. Il suo Rischiatutto è un simbolo delle profonde contraddizioni di quell’epoca. Snobbato e contestato dall’intelligentia per la sua proposta di una cultura nozionistica, raccoglieva davanti ai teleschermi 20 milioni di italiani ed era una fucina di personaggi e di storie, dalla valletta moderna e intelligente ai vincitori dei quiz trasformati in divi.

Più problematica la fase successiva che inizia con una scelta molto discutibile, ma che merita una certa attenzione storica. La scelta si chiama Flash, l’ultimo programma di Mike per il servizio pubblico ma, soprattutto, il primo quiz in cui il concorrente non deve indovinare un dato certo, oggettivo, ma l’opinione degli italiani su un dato: non chi è il presidente della Repubblica ma qual è il politico più amato.

E’ la conquista del potere da parte dei sondaggi, la messa da parte di un sapere consolidato e la valorizzazione della conoscenza delle opinioni, del sentiment, della doxa, in senso greco e non solo. E’ il preludio alla svolta epocale, la proposta berlusconiana che non si può rifiutare, il passaggio a Fininvest senza quel ritorno che invece caratterizzò il percorso di tanti colleghi.

La sua permanenza, quasi una militanza, sui canali Fininvest divenuta poi Mediaset fu, invece, duratura, piena di titoli capaci di stabilire record di popolarità e longevità – Telemike, La ruota della fortuna – e fu arricchita da incarichi di prestigio e di potere fino a una vicepresidenza del gruppo. Tuttavia – questa è la mia interpretazione, se volete discutiamone – nonostante questi indubbi successi, Mike Bongiorno non rappresentò mai in Mediaset quello che era stato per la Rai, non raggiunse mai quel grado di identificazione con l’emittente che aveva raggiunto ai tempi di Lascia o raddoppia? o di Rischiatutto.

L’identità delle reti Mediaset fu costruita e rappresentata da altre figure: dalla banda di Striscia la notizia e da quella di Drive in nella fase originaria della massima creatività, da personaggi come Maria De Filippi o Barbara D’Urso in una fase successiva assai meno creativa. Tanto che le ultime suggestioni per un ritorno in grande stile sui teleschermi per Mike arrivarono, con la complicità di Fiorello, nell’orbita di Sky.

E lì, se non se ne fosse andato all’improvviso, forse ci avrebbe ancora regalato qualcosa.

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