di Stella Saccà

Cicale, venticello, lenzuola fresche e profumate di coccolino (quello con l’orsacchiotto celeste), il pranzo con pomodori verdi e rossi, zucchine dolci e saporite, pane sfornato il giorno stesso e non soffocato in una busta chissà quando, rumore di posate tutto intorno che rimbombano nel silenzio cittadino, gatti che miagolano, porte che sbattono, telegiornale in sottofondo.

Poi le gocce d’oro e il cocomero, gli ultimi della stagione, i genitori che si alzano e vanno a riposare, i piatti da lavare con l’acqua fredda che ti dà sollievo e ancora il telegiornale in sottofondo, che quando ti ricordi di voler cambiare canale ormai è tardi perché hai le mani insaponate. E allora ascolti le solite voci, e i soliti argomenti di politica, come fossero la seconda voce di un coro.

Poi lasci i piatti puliti a scolare, osservi qualche goccia che cade dall’alto verso il basso, nel lavandino di acciaio (quello dei tuoi sì che è un bell’acciaio vero, mica come quello delle cucine delle mille case che hai cambiato, tutte diverse ma tutte uguali). Ti asciughi le mani con il canovaccio che non è bianco con i quadri blu e quindi non è di Ikea, come di Ikea non è la cucina di legno e il lavandino di acciaio buono. Quel canovaccio ha asciugato anni di chiacchiere, lamentele, polemiche, pasti di festa e probabilmente è frutto di un regalo di Natale, di un periodo di vita in cui il canovaccio veniva regalato, ed era quindi un oggetto di una certa importanza.

Insomma, con le mani asciutte prendi il telecomando e spegni i politici, le crisi di governo, il senso di precarietà che insegue te e gli altri nati con te, negli anni in cui i nemici erano la globalizzazione e l’Hiv, non la raccolta differenziata e le foreste che bruciano. E chissà quale altro nemico si sta armando ma ci attaccherà tra dieci, quindici, venti anni. E quando ci pensi hai ancora il canovaccio tra le mani e ti rendi conto che il nemico siamo noi travestiti da malattie, siamo noi travestiti da virus, siamo noi travestiti da guerre, siamo noi travestiti da fiamme. Siamo sempre noi.

Spegni tutto. Ora parlano solo le cicale da fuori alle zanzariere e alle inferriate, sembra cantino ancora più forte, sembra sappiano che è ora della pennica. Ma non ti danno fastidio. Non ti hanno mai dato fastidio. E allora vai nella tua camera da bambina, ti sdrai sul letto notando quanto sia piacevole farlo e quanto non lo avessi mai notato quando lo facevi da bambina, quando non eri stanca. Chiudi gli occhi e ti appisoli. Con una sensazione di bellezza che di inverno non hai.

E pensi che non c’è niente di più perfetto della pennica, perché non c’è niente di più perfetto che abbandonarsi alle sensazioni del passato spontaneamente, senza nostalgia. Perché non c’è niente di più perfetto che chiudere gli occhi sapendo che il giorno non è finito, che quando li aprirai sarà lo stesso giorno con lo stesso nemico e con gli stessi argomenti, roba insomma che riesci ormai a tenere sotto controllo. E allora ti abbandoni, sniffando l’odore di coccolino (quello con l’orsacchiotto celeste), e ti senti al sicuro, almeno per un’oretta.

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