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Brexit, cosa insegna la posa sonnecchiante di Jacob Rees-Mogg nel caos del Parlamento Uk

Il melodramma della Brexit, un evento che segnerà la storia del Regno Unito comunque vada a finire, ha un officiante pittoresco. È Jacob Rees-Mogg, che ha seguito il dibattito sonnecchiando, sdraiato sui banchi della Camera dei Comuni, lunghissimi divani foderati in pelle verde stile Jaguar anni 60 che rendono questa pratica assai confortevole. Poiché il bell’addormentato non è un deputato qualsiasi, ma il Presidente di quella Camera, la fotografia ha fatto il giro del mondo, suscitando critiche e rampogne, frizzi e lazzi. Anche perché Rees-Mogg è un personaggio particolare che si esprime in un linguaggio arcaico, ma forbito e aulico, affatto simile a quello di un collega blogger di questo giornale. E le intemerate di Rees-Mogg fanno sempre notizia.

Affronto alla democrazia e oltraggio all’istituzione sono stati i commenti più frequenti. Caricatura delle declinanti élite, paladino dei negazionisti climatici, frontman degli anti-abortisti, simbolo della frana della sterlina, imperturbabile etilista sono alcune tra le accuse, scelte tra quelle meno pesanti. Grazie a Photoshop, che agevola la fantasia grafica degli internauti, in rete spopolano fotomontaggi in cui il nostro levita sopra l’asticella del salto in alto, è mollemente discinto in calze a rete, si distende su un divano verde Ikea chiamato Mögg, ammicca in camicia e berretto da notte reggendo una candela, strizza l’occhio alla “Venere addormentata” di Joseph Heintz il Vecchio…

Secondo una più sottile interpretazione della realtà odierna, l’oltraggio parlamentare di Rees-Moog è invece un comportamento virale per una vasta quota di popolazione. È la gente che da tempo ha rinunciato a seguire quella che, una volta, era la “politica”, ma si gode il brivido del pubblico imbarazzo e della trasgressione, uno spettacolo di rabbia demagogica che offre un catalizzatore alle loro frustrazioni, peraltro assai giustificate dalla crisi della partecipazione democratica. Un caso in sintonia con le sparate di Boris Johnson o del suo consigliere Dominic Cummings. E se gli ultimi sondaggi segnalano che i nuovi Conservatori hanno aumentato del 10% il proprio vantaggio sui Laburisti, questa interpretazione non è del tutto campata per aria.

Per contro, dopo il dibattito parlamentare, 21 deputati conservatori hanno tradito il partito in disaccordo con la linea del governo. Un esempio di coraggio per i politici americani ed europei, italiani compresi. Ma il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare. I 21 sapevano benissimo di rischiare l’espulsione del partito, un alto prezzo per chi vive di politica, perdendo la candidatura nelle prossime elezioni. Hanno affrontato senza timore una prospettiva che metterà seriamente a repentaglio il loro futuro politico.

Tutto ciò fa riflettere sull’attuale consistenza – forza o debolezza – della democrazia rappresentativa più tradizionale, che elegge i deputati a maggioranza secca in una circoscrizione elettorale uninominale. Se molti ritengono un segnale di declino sia l’atteggiamento ironico e sprezzante di Rees-Mogg, sia lo strappo di una frangia moderata di conservatori, da sempre ligi alle direttive, questi fatterelli potrebbero anche segnalare il contrario. Tutto sommato, il sistema inglese garantisce l’indipendenza morale e culturale dei rappresentanti del popolo più di altri sistemi. E sia Rees-Mogg sia i dissidenti dovranno affrontare il giudizio diretto dei propri elettori, faccia a faccia di fronte a più di 54 ma meno di 69mila anime in una circoscrizione (consituency) che copre un territorio giocoforza “circoscritto”. In un sistema proporzionale, dove la distanza tra elettori ed eletti è un abisso spazio temporale, ciò non accadrebbe.

In Italia, molti autorevoli commentatori hanno criticato la votazione sulla piattaforma Rousseau in merito al governo giallorosso, alla quale hanno partecipato circa 80mila persone. Boris Johnson è stato eletto leader dei Tory da 92mila persone (il 56% ha più di 55 anni) su un totale di 140mila votanti. In entrambi i casi, la partecipazione si potrebbe assimilare a quella di un vasto sondaggio, il voto di una o due circoscrizioni. Per alimentare la partecipazione si può fare qualcosa di diverso, magari usando i social? Non è facile passare dalla teoria alla pratica, giacché i social si prestano a facili manipolazioni e, nell’età dello smartphone, ogni altra strada è impervia. Nessuno dubita che la democrazia rappresentativa debba fare qualche sforzo per aumentare la partecipazione, ma sembra quasi impossibile ritornare al Trentennio Glorioso (1945-1975) quando i governi democratici dell’Occidente erano riuscito a entrare nel cuore dei popoli.