Una Commissione europea più forte? Più simpatica, forse, con una presidente e 12 donne a renderla la più paritetica di sempre; e più fresca, certo, perché il presidente uscente Jean-Claude Juncker e alcuni suoi commissari sono giunti a fine mandato proprio “cotti”. Sui contenuti, però, la si misurerà da quello che farà: buone premesse ce ne sono, come il riconoscimento della necessità di riformare gli accordi di Dublino sulla gestione dei richiedenti asilo; ma un conto sono i propositi e un conto, poi, i fatti.

Aspettiamo che Ursula von der Leyen, cristiano-sociale tedesca – noi diremmo democristiana -, ex ministro della Difesa, figlia d’arte – il padre fu un alto funzionario europeo – e madre di sette figli, s’insedi con il suo collegio e cominci ad operare: sette settimane di pazienza, di qui al 1 novembre. Si capirà presto se i governi dei 27 le daranno credito e le lasceranno spazio; e se UvdL – già solo l’acronimo suona cambio di marcia – meriterà credito e vorrà utilizzare lo spazio lasciatole ed eventualmente cercare di conquistarne altro.

Non è impossibile fare meglio del suo predecessore, che ha comunque fatto meglio del portoghese Manuel Barroso, cui la strategia del “non disturbare il manovratore”, cioè i governi, valse il premio di due mandati. Anche se l’orizzonte dell’Unione è offuscato da nuvole nere: segnali di recessione e di crisi, quando ancora non sono stati assorbiti e del tutto recuperati i danni del 2008/09. La priorità dovrà essere mettere in atto politiche di sostegno del lavoro e di rilancio dell’economia, anticipando e se possibile sventando la crisi.

E un’Italia più forte in Europa? Teniamo i piedi per terra, non facciamoci illusioni e ragioniamo insieme. Più che dagli uomini presenti nelle Istituzioni comunitarie e dai loro incarichi, la forza d’un Paese nell’Unione dipende dalla sua credibilità e dai suoi comportamenti.

Prima delle Europee di maggio, l’Italia non era mai stata così forte nelle Istituzioni comuni: aveva tre delle cinque/sei posizioni apicali, che sono la presidenza della Commissione, il “ministro degli Esteri” europeo – Federica Mogherini -, la presidenza del Consiglio europeo, la presidenza del Parlamento europeo – Antonio Tajani -, la presidenza dell’Eurogruppo e la presidenza della Banca centrale europea – Mario Draghi. Eppure, a Bruxelles contavamo pochissimo, con un governo senza interlocutori politici influenti nel Consiglio europeo e senza spalle politiche valide nel Parlamento europeo.

Ora che abbiamo solo una posizione apicale – e per dispetto ricevuto: l’elezione di David Sassoli alla presidenza del Parlamento europeo è stato uno sberleffo, non un favore, al governo italiano, che non lo sosteneva -, siamo forse messi meglio: perché Paolo Gentiloni ha un portafoglio importante nel nuovo Esecutivo (in assoluto e per l’Italia), quello degli Affari economici; perché nella squadra di governo, in posizioni per Bruxelles chiave, ci sono personaggi che Bruxelles conosce e apprezza, a partire dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri; soprattutto perché la retorica governativa europea non è più quella dei “tanti nemici molto onore”, anzi “tutti nemici, molto onore”, ma è quella del dialogo e del confronto, specie con quei partner cui tradizionalmente siamo stati più vicini (e che tradizionalmente sono più attenti alle nostre posizioni, Francia e Germania).

Revisione del patto di stabilità e riforma di Dublino non sono più, anzi non sono mai stati, tabù nell’Ue, se si gioca il gioco delle proposte, dei negoziati, del delicato equilibrio fra risultati ottenuti e concessioni fatte. Sapendo di che cosa si parla e non gettando, com’è nostra frequente tentazione, il cuore oltre l’ostacolo: già si parla di un presidente europeo eletto a suffragio universale, proprio come il presidente degli Stati Uniti, senza ancora che ci sia un presidente europeo (ce ne sono tanti, ciascuno d’una istituzione) e, soprattutto, senza che vi sia – né s’intravveda – un’Europa federale.

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