Per evitare di restare prigionieri ed ossessionati della irrealistica quanto improbabile revoca della concessione di Autostrade per l’Italia (Aspi – gruppo Benetton), il nuovo governo dovrebbe delineare un piano che si appoggi su strumenti davvero realistici per riformare gli accordi con i 24 concessionari che gestiscono i 6,900 mila km della rete autostradale nazionale.
Per farlo, il primo obiettivo dev’essere quello di riequilibrare a favore dello Stato la regolazione pubblica delle concessioni, convenzioni e contratti stipulati con le società concessionarie, oggi basata sulla promessa che una quota dei loro profitti (il 25 per cento, se va bene) debba essere reimpiegato in investimenti infrastrutturali. Investimenti spesso definiti dagli stessi concessionari per garantirsi il rinnovo dell’appalto e buoni rapporti con l’amministrazione pubblica del territorio su cui insiste l’autostrada che gestiscono.
Non è sufficiente l’impegno previsto dal programma del Conte 2 a “realizzare nuove infrastrutture tenendo conto degli impatti ambientali e sociali delle opere”: manca il tassello del ruolo della regolazione pubblica. I super profitti delle concessionarie devono o no essere riequilibrati per destinare maggiori risorse alle casse dello Stato e non solo a manutenzione e investimenti? Gli obblighi di manutenzione della rete vanno fatti rispettare o no, e come? Basta la presenza del ministero dell’Economia e di quello delle Infrastrutture e Trasporti nei consigli di amministrazione delle concessionarie per esercitare i controlli sulla manutenzione? Dopo il Morandi sembra proprio di no. Vanno scritte nuove e più vincolanti norme che sanzionino le società inadempienti? Sembra proprio di sì.
E poi: come si approccerà nel futuro la regolazione pubblica con le concessioni già scadute e con quelle in scadenza? Cambierà il registro che ha visto in questi anni lo Stato soccombere ai capricci di potere dei concessionari in cambio di un piatto di lenticchie? Chi ha la forza per gestisce la riscrittura dei rapporti con i concessionari cioè mettere in atto la cosiddetta revisione delle concessioni? Negli ultimi anni è emerso in tutta la sua evidenza un vistoso limite del MIT nelle sue funzioni di vigilanza e controllo amministrativo verso i concessionari: si vuole recuperare il terreno – e i soldi – persi riorganizzando le strutture ministeriali oppure no?
Infine: è sufficiente la riforma tariffaria che armonizza i sistemi di pedaggio in base ad un price-cup universale, o non sarebbe anche il caso di dare un’aggiustatina alla base di riferimento del nuovo meccanismo di calcolo indicato dall’Autorità di Regolazione dei Trasporti?
Per avere un’idea delle storture che caratterizzano la gestione del sistema autostradale, basta considerare l’esempio della Pedemontana lombarda: quella esaltata da molti politici locali e nazionali come una delle infrastrutture indispensabili allo sviluppo non solo della Lombardia, ma dell’intero Paese, e che però è un simbolo delle inadempienze dei concessionari. Da cinque anni la sua realizzazione è bloccata dopo una spesa 1,2 miliardi di euro pubblici, e dopo aver mancato le promesse di apertura prime per Expo 2015, poi entro il 2018.
Il totale del percorso – 67 km – avrebbe dovuto costituire un collegamento completo tra Varese e Bergamo: dopo 30 anni dai primi lavori, l’autostrada non tocca nessuna delle due città, visto che sono stati costruiti soltanto tre monconi, pari a 22 km complessivi.
Il contratto con lo Stato firmato nel 2007 dall’allora ministro Di Pietro obbligava poi la società concessionaria a versare entro il 2010 oltre 500 milioni di capitale sociale. A quasi dieci anni di distanza ne sono stati versati meno della metà – o meglio: un quarto, visto che nel frattempo il capitale da versare è salito ad oltre 800 milioni.
Per realizzare il poco costruito finora è stato necessario un succulento contributo pubblico, che ad oggi ha coperto l’80 dei costi, imponendo che in cambio fosse garantita la realizzazione totale. L’opera però resta ferma e i cittadini la pagano due volte: con pedaggi carissimi, quelli che la usano, con le tasse tutti gli altri. Perché non partire da qui, se si vuole riportare le autostrade sotto la diretta gestione dello Stato?
Ma la neo ministra dei Trasporti, Paola De Micheli, dovrebbe anche chiedersi come mai la Corte dei Conti ha ritenuto illegittimo la proroga della concessione della Valdastico (A31), che ha permesso ad Aspi di incamerare quasi 600 milioni che dovevano finire nelle casse dello Stato. Oppure guardare alla vicenda dell’Autobrennero, che ha rinnovato la sua concessione grazie all’adozione del meccanismo in house: senza nessuna gara e liquidati i pochi soci privati, al comando dell’A22 sono rimasti gli Enti locali, grazie a tante promesse di opere sul territorio che va da Bolzano a Modena. La stessa via la sta seguendo, a Nore-Est, Autovie Venete. Altro tema tutt’altro trascurabile è poi la Gronda di Genova. Non si discute se farla o no, ma di chi la fa, chi la paga e quale progetto si adotta. Applicando l’accordo del 2017 siglato da Aspi e dall’ex ministro Delrio, il gruppo dei Benetton farebbe un altro bingo. Assumendosi i costi della realizzazione dell’opera, avrebbe una proroga di 4 anni della concessione, e introiti tariffari da qui al 2042 sette volte superiori a quanto speso.
Prima di dare assicurazioni sul veloce avvio dei lavori dei progetti in campo, insomma, la ministra De Micheli dovrebbe ridisegnare le politiche del suo dicastero su questa materia. Assieme agli aeroporti, le autostrade sono galline dalle uova d’oro, e dovrebbero deporne qualcuno anche nelle casse dello Stato.