Il nuovo governo M5S-Pd-Leu ha un’ulteriore occasione per dimostrare la discontinuità rispetto al passato: rimetta mano a legge Fornero e Jobs Act almeno per quel che riguarda l’indecente mortificazione dei diritti dei lavoratori introdotta dai governi Monti e Renzi. Mortificazione che – si badi bene – non è stata toccata granché dal cosiddetto “Decreto dignità” (DL n. 87/2018) varato dal precedente governo M5S-Lega. Grazie a questi tre provvedimenti, nel settore privato anche i posti definiti “a tempo indeterminato” sono diventati di fatto “a tempo determinato”, perché i datori di lavoro hanno ottenuto la possibilità di licenziare in modo illegittimo, a loro piacimento.

Ammesso, e non concesso, che si voglia cogliere questa occasione, ricapitoliamo la questione. Nel 2012 la riforma Fornero si è occupata di “Disciplina in tema di flessibilità in uscita e tutele del lavoratore”. Con le modifiche apportate dall’art. 1 c. 42 L. 92/2012 ha cambiato l’articolo 18 della legge 300/1970, lo Statuto dei Lavoratori, per quel che riguarda le aziende con più di 15 dipendenti.

L’articolo 18 nella sua formulazione originaria consentiva al dipendente licenziato illegittimamente di essere reintegrato nel posto di lavoro oppure, a sua scelta, di ottenere un’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità di retribuzione globale, fermo restando, in entrambi i casi, il diritto al risarcimento del danno. Grazie alla riforma Fornero, si applicano le disposizioni precedenti a rarissimi casi e, nei rimanenti, il lavoratore licenziato illegittimamente ha diritto solo a un’indennità in denaro.

Il Jobs Act renziano ha peggiorato le cose: varato nel 2015 (Dlgs. n. 23/2015), è riuscito a fare ancora più felici sia il padronato che la destra. Come? L’articolo 18 è stato eliminato del tutto per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015. Insomma, il datore di lavoro è incoraggiato a licenziare chi gli pare, tanto mal che vada – anche se viene stabilita l’illegittimità del provvedimento – il giudice non può più reintegrare il lavoratore (se non in casi davvero marginali) e l’azienda è tenuta esclusivamente al versamento di un’indennità.

Come sono stati giustificati questi provvedimenti? Con la lotta alla disoccupazione, perché risponderebbero a due presunte esigenze: incentivare gli investimenti, specialmente da parte di stranieri, e favorire le assunzioni a tempo indeterminato. Risultato: invece di rendere più sicuri i precari, sono stati “precarizzati” gli assunti.

Ha scritto nel 2016 su ilfattoquotidiano.it il giuslavorista Alberto Piccinini: “Il diritto del lavoro si è sviluppato allo scopo di compensare con norme, di regola inderogabili, uno squilibrio di partenza che esiste tra due parti contrattuali, a una delle quali vengono attribuiti determinati poteri (gerarchico, disciplinare) che devono conciliarsi con il rispetto della dignità dell’altra. La libertà di licenziare ‘a poco prezzo’ sbilancia ulteriormente tale equilibrio e condiziona tutto il rapporto di lavoro durante il suo corso, favorendo la possibilità di abusi, intimidendo la parte debole e inibendola a rivendicare diritti”.

Aggiunge oggi l’avvocato del lavoro Stefano Chiusolo: “La reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato dovrebbe essere l’architrave su cui si basa il diritto del lavoro. Una volta che la reintegrazione viene eliminata nella maggior parte dei casi, come è accaduto con la legge Fornero e soprattutto con il Jobs Act, crolla tutto. E di fatto il lavoratore, sapendo che in caso di licenziamento ben difficilmente potrà recuperare il posto di lavoro, non protesterà neppure di fronte alla violazione del suo più elementare diritto”.

Questa situazione è aggravata dal fatto che la cause davanti ai giudici del lavoro (salvo alcuni tribunali più fortunati) possono durare moltissimi anni, durante i quali il dipendente ingiustamente licenziato deve trovare il modo di lavorare altrove (in un periodo in cui è molto difficile scovare nuove occupazioni), sostenere la famiglia e pagare un avvocato. Inoltre l’Italia non ha ancora una legge che punisca il mobbing, cioè i comportamenti intimidatori da parte di datori di lavoro e dirigenti, cosicché chi vuole denunciare atteggiamenti vessatori e abusi deve affrontare uno slalom così lungo, stressante e oneroso da scoraggiare quasi chiunque.

In conclusione, il nuovo governo dovrebbe trovare la voglia e il coraggio per riformare la legge Fornero e il Jobs Act, rendere più veloce anche in questo campo la giustizia e creare norme contro il mobbing. Anche perché il precedente governo ha le sue responsabilità: il “Decreto dignità” non ha affatto riformato le modifiche più punitive nei confronti dei lavoratori.

Nell’attesa, per fortuna, il Jobs Act è stato messo in discussione almeno due volte. Prima la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’articolo 3 comma 1 del Dgls n.23/2015 – non modificato dal successivo dal “Decreto dignità” – che definisce in maniera rigida l’indennità spettante al lavoratore licenziato ingiustamente; poi il Tribunale di Milano, con ordinanza del 5 agosto scorso, ha rinviato alla Corte di giustizia dell’Unione europea l’articolo 10, che esclude dalla reintegra in caso di licenziamento collettivo.

Strano? Mica tanto. Eppure il premier Giuseppe Conte nel discorso di insediamento del suo secondo governo, svolto il 9 settembre alla Camera, di questi temi non ha parlato (un cenno c’è stato solo nell’intervento di Guglielmo Epifani di Leu). In compenso, Conte ha citato “il lavoro come supremo valore sociale”. Appunto, il valore sia restituito anche alla dignità dei lavoratori.

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