Ho aspettato un mese prima che un qualunque media del mainstream occidentale (e anche orientale) riportasse la notizia — pubblicata il 30 luglio dal sito web Reclaim The Net, a firma di Tom Parker — che Julian Assange è stato scagionato da una delle principali accuse per cui si trova tuttora nel carcere britannico di Belmarsh dopo il suo prelievo forzato e illegale dall’ambasciata londinese della Repubblica ecuadoregna. Poi se ne sono accorti il New York Times e, di seguito, dopo l’”autorizzazione”, anche Repubblica e il manifesto.
Il pronunciamento è venuto dal giudice Federale del Distretto meridionale di New York, John G. Koeltl, che ha respinto l’accusa del comitato nazionale del Partito democratico secondo cui Assange e Wikileaks avrebbero hackerato i computer del Partito democratico asportandone e diffondendo il contenuto di migliaia di e-mail. Secondo il giudice l’accusa è “in completo divorzio rispetto ai fatti”.
Non solo, ma visto l’”estremo interesse” pubblico del contenuto di quelle mail, ogni tentativo di impedirne la diffusione sarebbe da considerare come illegale e come una “violazione del Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America”. Inoltre il giudice americano, mostrando una evidente inclinazione per l’ironia, rilevava che “se Wikileaks dovesse essere considerato responsabile per avere pubblicato le strategie politiche, finanziarie e propagandistiche del Partito democratico, solo in base al fatto che il Partito democratico le considera segrete, allora ogni mezzo d’informazione potrebbe essere considerato responsabile dello stesso reato”.
Detto in termini più semplici: Assange non è da considerare un hacker; non è un criminale. È un giornalista e editore che ha fatto il suo mestiere. E ha reso noti fatti gravissimi come per esempio le macchinazioni che la direzione del Partito democratico, sotto la pressione di Hillary Clinton, mise in atto per togliere di mezzo dalla gara per la nomination il candidato Bernie Sanders.
Certo, questo non basta per togliere dalla testa di Assange la spada di Damocle di una sua possibile estradizione verso gli Stati Uniti al termine delle 50 settimane di prigionia affibbiategli perché invece di farsi arrestare si rifugiò, il 19 giugno 2012, nell’ambasciata ecuadoriana di Londra.
Presa nel suo insieme, la storia sarebbe allucinante se non fosse la prova che lo stato di diritto è una burla e che il peso imperiale fa pendere la bilancia della giustizia dove vuole “l’imperatore” di turno. Assange fu accusato di stupro da ben due donne, con ogni probabilità consenzienti, quattro settimane dopo aver pubblicato documenti segreti delle malefatte americane in Afghanistan. Il procuratore generale di Stoccolma lo scagiona.
Ma il 1° settembre 2010 un nuovo procuratore, Marianne Ny, riapre l’inchiesta per stupro. Assange chiede il permesso di viaggiare fuori dal paese, lo ottiene. Gli si vuole imporre il ritorno, ma Assange chiede (la legge svedese lo permette) di essere interrogato all’estero. Invece viene giudicato in contumacia. Assange teme (giustamente) che sarà arrestato al suo ritorno a Stoccolma e rifiuta di tornare, rifugiandosi nell’ambasciata ecuadoriana, mentre è presidente il suo amico Rafael Correa.
È il 19 giugno 2012. Ci rimane cinque anni. Poi il 19 maggio 2017 la magistratura svedese chiude l’inchiesta. Che vuol dire? Che, a termini di legge, Assange non è uno stupratore, non è un criminale, non minacciò nessuno. Dovrebbe dunque tornare libero. Ma le autorità britanniche, il giorno dopo, fanno sapere che se esce dall’ambasciata lo arresteranno. Si capisce, visto che Londra, più ancora di Stoccolma, obbedisce agli ordini del Partito democratico.
Così Assange rimane prigioniero in Gran Bretagna, seppure “libero” nelle mura dell’ambasciata dell’Ecuador. Altri due anni. Ma anche i presidenti cambiano. Rafael Correa è costretto a scappare anche lui e il nuovo presidente dell’Ecuador, che porta il nome di Lenin Moreno, si fa comprare con qualche miliardo di prestiti perché ceda il prigioniero. Che viene dunque arrestato dalla polizia britannica, penetrata nell’ambasciata con il permesso di Lenin (ma in violazione di ogni regola).
Adesso Assange, ormai palesemente simbolo della libertà dei giornalisti di tutto il mondo, è ostaggio britannico, in attesa di essere consegnato alla legge americana. La quale, com’è noto, ha appena consentito a Jeffrey Epstein di “suicidarsi” in una cella dove era sottoposto a sorveglianza continua.
Se voi foste al posto di Assange, immagino cerchereste di far sapere al mondo intero che non avete nessuna intenzione di suicidarvi. Ma un attimo di sconforto può accadere a tutti, non è vero?