Cinema

La fattoria dei nostri sogni, il documentario dei record è un miracolo sensoriale

Diretto e interpretato, assieme alla moglie, dal documentarista John Chester, The Biggest little farm ha almeno due grandi pregi e un difetto filosofico irrisolto

di Davide Turrini

Nella nuova fattoria, bio bio oh. La fattoria dei nostri sogni, uno dei casi distributivi dell’estate statunitense, è arrivato anche sugli schermi italiani. Il documentario sul ritorno alla natura di una coppia di “cittadini”, che acquista 200 acri di arido terreno californiano e lo trasforma in un miracoloso eden biologico, aveva esordito a maggio 2019 con cinque copie e poi in poche settimane era arrivato a 285 sfiorando in tre mesi quasi 5 milioni di dollari d’incassi.

Diretto e interpretato, assieme alla moglie, dal documentarista John Chester, The Biggest little farm ha almeno due grandi pregi e un difetto filosofico irrisolto. Intanto visivamente ti lascia come con la bocca aperta davanti alla vetrina dei dolci, anche se qui sono esposti fauna e flora. Close-up modello Microcosmos come zenit stilistico, sintesi fotografico-narrativo quasi fiabesca (ci manca poco che gli animali – mucche, maiali, galline, pecore, cani – parlino), il film trasmette magicamente il prodigio di un lavoro contadino privo di puzze e putridume, dov’è trendy perfino spalare letame. L’inquadratura in cui il terriccio coi vermi brulicanti si squaglia tra le mani di un farmer della Apricot Lane sembra quasi invogliarti a percepire tra le tue, di mani, questa sensazione di vivo contatto con la natura. Ed è davvero un miracolo sensoriale come fossimo di fronte ad un pioneristico cinema tattile.

Altro punto a favore è la sottolineatura solenne e problematica del ciclo vita-morte della natura. Albicocche e insetti che se le divorano, polli e coyote che fanno altrettanto, il cane Todd che disegna la via della campagna e muore, il guru dell’agricoltura che insegna a tutti e ci lascia pure lui, sono tutti esempi ciclici naturali che rendono ancor più esclusiva e intrigante la visione di questa immersione bucolica.

Così se da un lato viene abbozzata un’alternativa alle grandi monoculture e allevamenti industriali-globali che strangolano il pianeta, rischiando ogni anno una qualche sciagura “naturale” che distrugge ogni sforzo contadino; dall’altro penzola comunque il dilemma etico dei protagonisti inteneriti di fronte alla nascita dei maialini da latte o alla malattia della scrofa quando poi capiamo tutti che un attimo dopo verranno accoppati. Da lì Chester&Co glissano e non mostrano più nulla. Nessuno è perfetto.

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