Nei suoi ultimi anni di vita, a metà degli anni Settanta, Pier Paolo Pasolini propose più volte nei suoi scritti l’espressione divenuta poi celebre di “mutazione antropologica”, con cui voleva segnalare un profondo mutamento culturale che stava avvenendo nel nostro Paese. Il bersaglio principale di Pasolini era il borghese, l’uomo medio, “un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista” come dice un personaggio del film La ricotta.
Oggi ci ritroviamo a riflettere su quella che forse è un’altra mutazione antropologica, che forse è in continuità con quella pasoliniana, il riproporsi dell’eterno fascismo di cui lui parlava spesso. Quei cori inneggianti al duce, quegli slogan fascisti, quei saluti romani visti davanti al Parlamento ci inducono a riflettere su come sia cambiato il nostro Paese. Su come per certi versi si stia assistendo a una pericolosa regressione storica, legata a una mancanza di memoria.
Linguaggio e posizioni esplicitamente fasciste o razziste oggi sono possibili e i loro autori hanno vita facile, perché in qualche modo si sono ridotti quegli anticorpi che ogni società democratica deve contenere in sé, affinché le cose non degenerino. Il linguaggio pubblico dei politici è sceso talvolta a livelli da ultras da stadio e, in nome della schiettezza, si sentono pronunciare frasi che per il tono, il linguaggio e i contenuti, non sarebbero stati tollerati in precedenza, soprattutto da donne e uomini delle istituzioni.
Un aspetto sintetizzato molto bene da Ezio Mauro, quando scrive che prima non era così: “Non lo permettevamo a noi stessi. Sciolto dai vincoli sociali, autorizzato a pensare soltanto a sé, soggetto sperimentatore di un nuovo concetto di ego-libertà a sovranità limitata, l’individuo sposta ogni volta i suoi propri limiti, autorizzato dal silenzio-assenso che lo circonda”.
Spostiamo ogni giorno più in là il limite del tollerabile, perché mitridatizzati dal bombardamento di inciviltà e di irresponsabilità di molti rappresentanti della vita pubblica. Per esempio, quando nel 2009 l’allora semplice deputato della Lega Matteo Salvini propose di istituire vagoni della metropolitana milanese separati per gli stranieri, uno scenario da Alabama degli anni Cinquanta, ci furono alcune reazioni, ma quando qualcuno riproporrà una idea simile, la reazione, se ci sarà, sarà minore. La prima volta la frase suscita anche un po’ di indignazione (non troppa in realtà), ma la seconda volta passa inosservata. Ci sembra normale, ci abbiamo fatto il callo e l’asticella della tolleranza si è alzata di un altro po’.
Questa aumentata capacità di sopportazione e questa sempre maggiore indifferenza nascono dal fatto che non ci si sente più parte di una società che si pensava civile e fondata su certi valori, tra cui un vincolo di reciprocità. Vincolo che, sebbene con modalità diverse, veniva veicolato e incanalato in forme di partecipazione, dai partiti tradizionali. Oggi quel codice è saltato e nella solitudine in cui vive, il cittadino diventa sempre più individuo, liberato da ogni vincolo sociale che lo lega agli altri.
Infatti, una delle caratteristiche delle azioni identitarie è quella di separare i presunti Altri da Noi, ma non di creare legami interni. Si continuano a moltiplicare i dispositivi di separazione e di discriminazione, ma nessuna relazione emerge da questo atteggiamento, nessuna spinta comunitaria viene davvero perseguita. La sola prospettiva che ne emerge è quella di un mondo senza legami.
Si sta anche rompendo il patto protagonista del dopoguerra tra capitalismo, stato sociale e sistema democratico. A questo contribuisce anche un fattore anagrafico: la generazione che ha vissuto il fascismo e che ha partecipato alla Resistenza, che ha contribuito alla realizzazione di un paese democratico, insegnandoci ad apprezzarne il valore fondamentale, sta pressoché scomparendo. Quelle persone, che con la loro memoria avevano contribuito a mantenere viva anche nelle istituzioni il ricordo del ventennio totalitario, non sono più tra noi, l’intera classe politica è stata sostituita da donne e uomini che quel periodo non solo non lo hanno vissuto, ma nemmeno portano con sé la memoria familiare di quegli eventi.
A questo si aggiunga il susseguirsi negli ultimi decenni di molti governi di centrodestra o di destra, che, ignorandole, hanno contribuito a svuotare di ogni contenuto e rappresentatività quelle cerimonie – come per esempio quella del 25 aprile -, rituali che contribuivano a ricordare al Paese cose era accaduto. La stessa Giornata della memoria (27 gennaio) si riduce nella maggior parte dei casi a qualche dichiarazione di circostanza, senza che diventi veramente un momento di riflessione critica.
La mancanza di memoria storica, associata a una buona dose di malafede, fa sì che oggi si possa tranquillamente andare in giro con una maglietta con la scritta Auschwitzland o dichiararsi apertamente fascisti, senza incorrere né in sanzioni giudiziarie, né nella riprovazione sociale.
In un vuoto storico e morale di questo tipo diventa persino inutile, se non controproducente accusare certi esponenti politici o movimenti di essere fascisti o razzisti, perché tali aggettivi hanno perduto la loro carica di stigmatizzazione. Non ci si vergogna più di esserlo, quando non lo si proclama apertamente, con orgoglio. Si finisce, al contrario, per normalizzare il discorso sul fascismo e sul razzismo e di trasformarlo in una moda corrente. Un po’ come accade al turpiloquio, che a furia di essere usato non impressiona più nessuno, tanto che spesso diventa un vezzo.
Come ha detto il filosofo ispano-americano George Santayana: “Chi non conosce il proprio passato, è condannato a ripeterlo”.