Nel capoluogo emiliano la prima edizione di “Generazione senza frontiere”, per condividere pratiche positive e creare nuovi modelli concreti che mostrino il valore dell’inclusività di cultura, di genere, di orientamento sessuale, di formazione, di salute, di abilità, di caratteristiche fisiche. “Necessario elaborare modelli per superare stereotipi e pregiudizi”
Dal palco Chris Richmond mostra alla platea il suo passaporto: “L’opportunità vera che ho avuto è avere il passaporto svizzero nonostante io sia nato in Costa d’Avorio. Ma non tutti hanno questa possibilità”. Richmond è il fondatore di Mygrants, start-up bolognese che ha realizzato una piattaforma per informare, formare e aiutare i migranti a entrare nel mercato del lavoro: finora ha aiutato 1.870 persone a trovare un posto. Il palco è quello del centro congressi di Fico Eataly World, a Bologna, dove l’11 settembre il Comitato Global Inclusion – Art. 3, in collaborazione con Insieme per il Lavoro, ha organizzato la prima edizione di Generazione senza frontiere chiamando a raccolta diverse realtà italiane che lavorano sull’inclusione nei luoghi di lavoro: imprese, associazioni non profit, università. Punto di partenza l’articolo 3 della Costituzione italiana: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che (…) impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
“La responsabilità sociale delle imprese non incide solo sulla loro reputazione, ma è un fattore essenziale per crescere e cambiare”, ha spiegato Luigi Bobba, presidente del Comitato Global Inclusion Art. 3, esperto di terzo settore ed ex sottosegretario al Lavoro nel governo Renzi. “Ugualmente l’investimento delle istituzioni su e con gli enti di terzo settore diventa una leva decisiva per combattere le diseguaglianze, promuovere l’inclusione e rigenerare i legami comunitari”. Ma per rimuovere gli ostacoli messi nero su bianco nell’articolo 3 della Costituzione è necessario anche promuovere azioni e modelli concreti: “L’obiettivo – spiegano i promotori del Comitato – è quello di elaborare modelli per il superamento di stereotipi e pregiudizi consapevoli e inconsapevoli sui luoghi di lavoro, mostrando invece tutto il valore dell’inclusività, di cultura, di genere, di orientamento sessuale, di opinione, di formazione, di salute, di abilità, di caratteristiche fisiche”.
Anche perché, come ha spiegato Ornella Chinotti, direttrice di Shl Italia e Francia, stando agli studi sui fattori che determinano la competenza del lavoratore le diversità sono un valore anche a livello economico: “La gestione delle diversità non appare solo un argomento di sostenibilità o di pari opportunità, ma anche un tema strategico per le imprese”. Come dimostrano storie e casi raccontati nel corso della giornata.
La piattaforma lavorativa per i migranti – Richmond, che in passato ha lavorato per l’agenzia Frontex, ha spiegato come è nata e a cosa serve Mygrants. “Provate a pensare cosa vuol dire lasciare il proprio paese e prendere sentieri che non si conoscono, a 12, 13, 14 anni, lasciando l’obiettivo preimpostato per poter sopravvivere. Da queste esperienze possono nascere competenze che non ha invece chi è nato e cresciuto in Italia. Paese dove, tra l’altro – ricorda – il 60% del fabbisogno occupazionale non viene evaso e solo il 3% delle persone iscritte alle liste occupazionali trova lavoro. Per questo bisogna trovare nuovi meccanismi”. La piattaforma oggi conta 60mila utenti, molti dei quali sono ancora in territorio africano, e per ora ha permesso di trovare un lavoro a 1.870 persone: “È necessario – spiega il fondatore della start-up – che sempre più i migranti vengano presi in considerazione non come un peso, ma come una opportunità”.
La società di consulenza che dà lavoro ad adulti nello spettro dell’autismo – “Perché la biodiversità in ambito agroalimentare è un fattore positivo, mentre la diversità in ambito umano è vista in negativo?”. La domanda arriva da Alberto Balestrazzi, amministratore delegato di Auticon, società di consulenza informatica che assume solo persone nello spettro dell’autismo. Proprio dal mondo informatico Balestrazzi prende un altro esempio: “La diversità non è un errore di sistema, ma è un diverso sistema operativo”. Da questo assunto parte l’esperienza di Auticon, che conta quasi 300 lavoratori in diversi Paesi, tra cui l’Italia, dove oltre il 90% delle persone autistiche è disoccupato: “Le qualità delle persone autistiche rappresentano un enorme vantaggio competitivo nel campo delle tecnologie dell’informazione. Il nostro modello di business che a sua volta produce benefici continui per le persone nello spettro dell’autismo, per l’economia e per la società”. Ma l’obiettivo è un altro, spiega l’amministratore delegato: “Missione finale, tra vent’anni: non esserci più, perché vorrà dire che tutte le aziende sono inclusive”.
Essere donna nel mondo dell’informatica – L’inclusività passa anche dalla uguaglianza di genere. Una battaglia che passa dalle parole, come ha ricordato all’inizio della manifestazione la presentatrice Chiara Romersa di Newton S.p.A.: “Tutte le cariche dell’associazione Art. 3 sono declinate al femminile, anche per gli uomini, per ribaltare l’utilizzo attuale del linguaggio”. Un utilizzo che ricorda anche Floriana F. Ferrara, direttrice della fondazione Ibm che si presenta però come “direttore”: “Da statuto in Ibm – spiega – io non sono ‘direttrice’, anche se donna, ma ‘direttore’”. Nel mondo dell’informatica, spiega Ferrara, sono tantissimi gli stereotipi che deve affrontare una donna e che possono anche impedire la crescita professionale: “Spesso – spiega – non viene accettato il fatto che tu sia donna e anche brava in questo settore”. Ferrara racconta la sua battaglia personale, che parte anche da piccoli aspetti: “Uno degli stereotipi più diffusi è quello secondo cui la capacità informatica è inversamente proporzionale all’altezza dei tacchi a spillo. Io potrei correre con i tacchi a spillo ma sono anche brava”. Quella per l’uguaglianza di genere è una battaglia che Ferrara ha portato anche all’interno di Ibm, con la fondazione di un’associazione non profit che ha in campo diversi progetti, tra cui “Nerd”, acronimo di ‘Non è roba per donne’: “Insieme a 1000 volontari apriamo i laboratori di 13 università di informatica alle ragazze di medie e superiori, insegnando loro l’intelligenza artificiale insieme alla creatività. Per far capire che l’informatica è roba per donne”.