di Monica Di Sisto

Fa sempre un po’ impressione ascoltare l’energia con la quale i ministri per l’Agricoltura e il Commercio Internazionale degli ultimi governi – eccezion fatta per Luigi Di Maio e Gian Marco Centinaio – collocano la ratifica da parte del Parlamento italiano del trattato di libero scambio tra Europa e Canada, il Ceta, tra gli impegni dei propri primi 100 giorni di lavoro. La neoministra italiana Teresa Bellanova, infatti, parlando in radio, alla carta stampata e ovunque possibile ha sostenuto che il Ceta “s’ha da fare” collocandolo tra quei temi, come Ogm e Xylella, per i quali il suo dicastero si affrancherà da foschi “sciamani” forieri di sottosviluppo.

Fa effetto perché l’export italiano verso il Canada nel 2018, come spiega il rapporto 2018 Ice sul Commercio internazionale del nostro Paese, vale appena lo 0,9% del totale delle nostre esportazioni (il 56,3% del nostro export è diretto ai Paesi Ue) ed è aumentato del 4,8%, mentre la media del periodo 2012-2018 è del 6,2%. Quindi, nel caso, il periodo pre-Ceta è stato più fruttifero di quello successivo all’entrata in vigore del trattato, al netto delle variazioni stagionali e settoriali.

C’è da ammettere che Bellanova non è la prima a investire il Ceta di poteri salvifici per la bilancia commerciale dell’agroalimentare italiano (in attivo, ma in flessione secondo Ice, per la recessione tedesca, l’aumento del costo dell’energia e il calo di ordinativi da parte di Turchia, Russia e Paesi Opec, problemi cui la ministra non accenna).

Ricordiamo la celebrazione del successo in Canada del formaggio pecorino, anche da parte di una nota trasmissione televisiva, e poche settimane dopo le strade della Sardegna riempirsi di latte versato dai pastori, affamati dai prezzi imposti proprio dalle principali imprese esportatrici per una sovrapproduzione amplificata dalla corsa ai mercati extra-Ue.

Uno dei principali nodi del settore agroalimentare italiano, infatti, non è quello della mancata ratifica del Ceta, ma la scarsa redditività per chi vive di made in Italy: lo dice l’Ismea, che nel Rapporto sulla competitività alimentare italiana 2018 spiega che su 100 euro destinati dal consumatore all’acquisto di prodotti agricoli freschi, ne rimangono appena 22 come valore aggiunto ai produttori agricoli i quali, con quel valore, devono coprire gli ammortamenti e pagare i salari, ottenendo come utile 6 euro, contro i 17 euro che rimangono in capo alle imprese del commercio e del trasporto.

Sempre sperando che una tempesta d’acqua, di vento, una gelata o una siccità improvvisa, che si stanno moltiplicando negli ultimi anni, non comprometta ancora maggiormente questo quadro allarmante già nei soli conti economici. Nel caso dei prodotti alimentari trasformati, dove la filiera si complica ulteriormente, l’utile in capo all’imprenditore agricolo, su 100 euro destinati dal consumatore all’acquisto di beni alimentari, è inferiore ai 2 euro.

Non migliore è la situazione per l’imprenditore del settore della trasformazione alimentare: in questo caso, infatti, la maggiore quota del valore aggiunto è assorbita in misura più che proporzionale dai salari e altrettanto compresso risulta il reddito netto d’impresa, che ammonta a solo 1,6 euro; ben diversa la remunerazione netta per gli imprenditori dell’aggregato del commercio, distribuzione e trasporto che si mantiene a 11 euro.

Bellanova pensa al Ceta, cioè a come facilitare l’acquisto di preziosi prodotti tipici italiani a poche famiglie più abbienti in Canada, ma non mette in priorità nei primi 100 giorni del suo mandato il calo delle vendite alimentari: –0,5% in volume tra 2017 e 2018, che si aggiungono ai circa 14 punti percentuali di consumo già persi dall’avvio della crisi del 2007 e mai recuperati. Le famiglie impoverite si rifugiano nei discount affollati di prodotti stranieri a basso costo, che segnano ancora un +4,4% sul 2017, pur rallentando anche essi vistosamente.

Non si preoccupa, la ministra ex bracciante, del “food social gap”: sempre più famiglie con ridotta capacità di spesa costrette a rinunciare agli acquisti di alimenti di particolare valore nutrizionale (carne, pesce, frutta, verdura) e con una fascia di popolazione molto ristretta più “alto spendente”, che punta invece verso i prodotti più qualitativi.

Ci chiediamo perché tanto slancio quando i concorrenti canadesi non hanno esitato ad accusare l’Italia e il suo predecessore e collega Pd Maurizio Martina di “protezionismo” per aver introdotto la tracciabilità del grano nelle etichette della pasta, ringraziando il Ceta come strumento per ottenerne l’abolizione. Perché provocare reazioni, a governo appena avviato, dai senatori del M5s, che le hanno spiegato che il Ceta è “pesantemente dannoso per il made in Italy e tutta la filiera nostrana”, a Stefano Fassina che per Leu le ha ricordato che “il governo Conte non è monocolore Pd”, al deputato di Fi Paolo Russo, coordinatore del gruppo interparlamentare No Ceta, che l’ha rimproverata di “non aver ascoltato i produttori, gli agricoltori, i veri numeri dei consorzi”.

Bellanova, probabilmente senza saperlo, colloca tra i cosiddetti “sciamani” nemici dell’agricoltura moderna, oltre all’alleato di governo Luigi Di Maio, che più volte da ministro competente si schierò contro il Ceta, anche il segretario del Pd, Nicola Zingaretti.

Sì, perché Zingaretti, come presidente della Regione Lazio, si è unito nel 2017 agli oltre 2mila tra Comuni, Province e Regioni italiane che chiesero con mozioni e delibere al Governo Gentiloni di non ratificare il Ceta dichiarando su Twitter: “Il Lazio dice NO a #CETA. Chiediamo al Parlamento di fare lo stesso, difendiamo i nostri produttori e sapori sa commercio ingiusto senza regole”.

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