Due sorelle separate da un padre cattivo che non si rivedranno mai più per tutta la vita. Una cavalcata familiare che dura mezzo secolo tra le strade di Rio de Janeiro. La punteggiatura sonora continua di un pianoforte destinato a bruciare tra le fiamme e lo sfondo visivo di una flora incombente che avvolge i protagonisti. La vita invisibile di Euridice Gusmao, in sala con Officine Ubu dal 12 settembre, è stato definito, con brillante intuizione, un “melodramma tropicale”.
La struttura classica, dolorosa, e visivamente lussureggiante del melò. L’umido alito di calore equatoriale che insuffla angoscia e insofferenza tra la più timida e giovane Euridice (Carol Duarte), giovane promessa del pianoforte, e Guida (Julia Stockler), sua sorella più grande. Siamo nei primi anni cinquanta, tra colori saturi e la pasta densa di una fotografia magistrale, la due ragazze, attaccatissime, affrontano i primi patimenti sentimentali dell’esistenza. Euridice copre le scappatelle già mature di Guida, ma poi quest’ultima scapperà con un bellimbusto greco. Tornata a casa felice tempo dopo verrà cacciata dall’imbestialito padre che le annuncia che non potrà più rivedere la sorella in quanto trasferitasi al Conservatorio di Vienna. Ma le due sorelle non sono separate dall’Oceano Atlantico, anzi vivono e vivranno nella stessa città per decenni sfiorandosi, percependo la presenza l’una dell’altra, con solo le lettere di Guida ad Euridice a mostrarcele non lontane, missive che poi finiranno in uno scatolone occultato dal loro padre.
Tratto dal romanzo di Martha Batalha, parente alla lontana de L’Amica Geniale, il regista e sceneggiatore brasiliano Karin Ainouz dipinge un magmatico affresco sulla cultura patriarcale e la volontà emancipatoria della donna che si traduce in resilienza. Per nulla schiavo della trama (si capisce comunque tutto senza problemi, state tranquilli), nelle due ore e quattordici che volano via leggere come variopinte farfalle, Ainouz preferisce affidarsi totalmente alla densità e al significato dell’immagine e spesso alla recitazione senza dialogo.
Poco interessato alle canoniche giunture di montaggio causa-effetto, si corre per tracce, sensazioni, improvvisi momenti descrittivi ma mai totalizzanti, si salta in avanti continuamente nel tempo lasciando vuoti spazi, possibili deviazioni, scontate risoluzioni. Intanto La vita invisibile di Euridice Gusmao ammalia lo sguardo con la sua languida saudade, concupisce l’attenzione mostrando nudità esteriori ed interiori dei protagonisti, facendo emergere la sempre più vana e sfuggente distanza tra sorelle. Si esce sazi e affranti, ma ne vale la pena. Straordinario blocco finale con l’89enne Fernanda Montenegro, la protagonista di Central do Brasil di Salles, in scena per dieci indimenticabili minuti. Miglior film al Certain Regard di Cannes 2019.