L’elettroshock che si praticava molti anni fa non prevedeva l’anestesia e un scarica inferiore a 5 volt, come avviene ai giorni nostri. Ho raccolto diverse testimonianze di chi da quegli elettrodi c’è passato. In maniera anonima e autorizzata faranno parte di un saggio che tratterà il reinserimento di chi ha conosciuto lo scompenso mentale.
“Quando capitò a me, avevo vent’anni. La scarica elettrica è come un viaggio. Come una finestra che si spalanca di colpo, mentre dormi. Se ti va bene, ti manda luce, tanta che te ne puoi far bastare per mesi. Se ti va male, ti acceca. E resti al buio, per sempre”. Mi sintetizza così l’effetto delle scariche il vecchio signore che se ne sta seduto, con un maglione grigio e lungo, mentre mi mostra il giardino di quello che era un vecchio ospedale psichiatrico.
“Uno di noi – sussurra – da quel giorno non ha mai più parlato. Se non il giorno in cui sono venuti a dirgli della morte del fratello”. E’ una delle storie più crudeli sentite in questo angolo di mondo nascosto. Lui venne rinchiuso per molestie e sottoposto a sei scariche. Essendo solo, nessuno venne mai a chiedere delle sue condizioni. Invecchiò con la mobilia e l’erba di questo stabile. Dimenticò, a causa dei troppi volt, di avere un fratello. Lo ricordò solo quando vennero a dirgli che era morto. Da quel giorno in poi, smise di parlare.
La signora attempata, ma dotata di memoria ferrea, ricorda suo padre dopo il trattamento. A suo dire gli era rimasta, in mezzo alle piaghe del volto e alle membra ricurve, una umanità inattaccabile. “Fermo come una cosa sorda all’acqua, cieca al sole. Immobile come lo sono quegli oggetti violati e gettati nel pattume. La chimica dirigeva i suoi pensieri, i suoi circuiti neuronali semplici e mozzati. Gli occhi roteanti erano il solo ricordo di un uomo che era stato vivo, prima che le scariche di corrente penetrassero nei pensieri più nascosti”.
“Io non sapevo cosa fosse un padre pazzo“, mi racconta. Non le avevano detto a quale spettacolo sarebbe andata incontro. Pochi lì dentro riconoscevano i familiari. Fu tuttavia uno stupore intimorito e condiviso quello che colpì gli infermieri quando aprirono la porta di legno avvicinando la bambina, che oggi mi parla del il suo passato. “Lo videro alzare la mano livida e passarsi le dita sul capo, come a pettinarsi. Inconsapevole del suo sguardo bruciato, certo di un viso che non era più tale. Tossendo si levò in piedi e strisciò sul muro cercando nelle pietre la forza per alzarsi. Non volle specchi, solo il vecchio maglione felpato. Aprirono la porta intimoriti e io, lesta, fuggì dalla loro morsa correndo incontro a mio papà chiamandolo per nome. Mi feci prendere e alzare, sentendo quell’amore paterno che le scariche non avevano bruciato”.
In molti casi di ricovero a causa di scompenso psichico, il soggetto paga il prezzo dello stigma dell’omologazione sociale che, in un certo qual modo, lo intrappola e da lui richiede esclusivamente gli atteggiamenti da “matto”, disconoscendone e spesso vanificandone le risorse, le capacità e abilità, in molti casi elevate, che l’individuo possedeva prima che avvenisse il crollo. Dunque uomini con qualità eccelse in diversi campi professionali, colpiti da crisi psicotiche acute poi ricucite grazie a buoni trattamenti e a forza di volontà personale, non riescono in molti casi più a convincere l’Altro della loro possibilità di riprendere la loro vita precedente, attingendo alla quasi totalità delle cose che sapevano fare e alle conoscenze delle quali erano venuti in possesso.
Questo perché, come mi è stato detto in seduta, “per quel paese io ero solo quello che era stato ricoverato e niente più. Tutto quello che io ero prima, e che avrei potuto nuovamente essere, non era socialmente ammesso“. La società costruisce, basandosi sul tornaconto che trae dal pregiudizio, un poderoso freno sociale alla riabilitazione e al reinserimento del soggetto con scompenso psicotico nel legame.