Era il 12 settembre 1979 quando il velocista di Barletta stupì tutti alle Universiadi di Città del Messico diventando per quasi 17 anni l'uomo più veloce del mondo sui 200 metri. Non era forse un predestinato o uno Special One, ma laddove il fisico non garantiva il 'surplus', ecco intervenire l’abnegazione alla fatica e all’allenamento
Quarant’anni fa Pietro Mennea stabiliva uno dei record del mondo più longevi dell’atletica. Divenne l’uomo più veloce sui 200 metri il 12 settembre 1979 a Città del Messico e nessuno, fino a pochi mesi prima di Atlanta 1996, riuscì a battere il crono della Freccia del Sud. Ma quel 19″72 resta un’impresa senza tempo, come Italia-Germania 4-3 o l’ora di Moser: altre gesta le hanno superate, ma nell’immaginario collettivo hanno sempre un posto speciale. Quel velocista nato a Barletta, profonda Puglia, bianco, esile ma caparbio e tignoso come nessuno, correva non contro gli avversari, ma solo contro il tempo: quel giorno alle Universiadi messicane sapeva di poter compiere l’impresa anche se forse non immaginava che quelle quattro cifre sarebbero rimaste nella storia dell’atletica per sempre.
Mennea non era forse un predestinato o uno Special One, ma laddove il fisico non garantiva il ‘surplus’, ecco intervenire l’abnegazione alla fatica e all’allenamento: doti che possedeva e che quel giorno gli permisero di correre i 200 metri come nessuno prima né dopo per quasi 17 anni. Qualcuno malignamente ipotizzò che fosse stata tagliata la curva, perché quel 19″72 sul tabellone pareva davvero uno scherzo, qualcosa di impossibile da raggiungere. Ma le immagini smentirono i critici e spazzarono via i dubbi degli invidiosi. Azzittiti definitivamente un anno più tardi, quando Mennea vinse l’oro sulla stessa distanza ai Giochi di Mosca, grazie a una rimonta mozzafiato.
“Ero teso ma non troppo, nulla a confronto delle vigilie delle Olimpiadi – raccontò il velocista azzurro molti anni dopo – Gli altri atleti volevano battere l’’italiano’, io invece sapevo che la lotta era solo tra me stesso e il cronometro”. E ci riuscì, lasciandosi alle spalle gli avversari di almeno cinque metri. Così frantumò il record stabilito 11 anni prima dallo statunitense Tommie Smith (19″83) a Mexico ’68, rompendo anche e soprattutto il cliché che i velocisti più forti fossero caraibici o afroamericani. Quel record del mondo durò quasi 17 anni, quando Michael Johnson lo portò a 19″66 nei campionati nazionali statunitensi e poi migliorandosi sulla pista olimpica di Atlanta. Altri velocisti, altri record. Destinati a frantumarsi in fretta. Prima di diventare leggenda.