Nel novembre del 1991 presentai al Capo dell’Ufficio studi dove lavoravo la previsione, nel 1992, di: (a) una svalutazione della lira del 25%, “forse in Novembre”; (b) il previo aumento dei tassi d’interesse (in difesa del cambio). Consigliai di alleggerire il portafoglio titoli, per ricomprarli più bassi nella tempesta, atteggiandoci pure a difensori della Patria.

Il 2 giugno 1992 il NO dei danesi all’euro scatenò la speculazione. L’Italia aveva appena votato, ed era senza governo. La banca d’Italia alzò i tassi troppo debolmente. E Ciampi fece un errore fatale; dichiarò: “Che dolore alzare i tassi!”, rivelando che non avrebbe fatto molto di più. A quel punto le sorti della lira erano già segnate. La speculazione prese d’assalto l’ultimo baluardo, le riserve valutarie della banca d’Italia.

Dietro alle mosse di Ciampi c’era l’economista Pierluigi Ciocca, con il quale ebbi una secca discussione a fine giugno all’Osservatorio Monetario di Vaciago a Milano. Per qualche strano motivo Ciocca passa per “keynesiano”. Ma a Milano usò un modello neoclassico dove “il cambio di equilibrio” dipendeva dai differenziali d’inflazione, punto; e secondo quel modello, lo squilibrio (eventualmente) da correggere era solo del 7%… In realtà Ciocca, nonostante la recessione in atto, temeva l’inflazione. Su questo punto ci fu un’infuocata discussione ai primissimi di settembre in Sapienza, organizzata da Ferruccio Marzano. Cinquanta economisti – dopo l’“eventuale” (!) svalutazione – vedevano un aumento dell’inflazione; solo tre ne prevedevano il calo (fra questi l’allora Presidente dell’Istat Rey, il sottoscritto, e un terzo che non ricordo). Keynes era stato non superato, ma dimenticato.

Ciampi era convinto di riuscire ad evitare la svalutazione: lo Sme impegnava la Germania a una difesa illimitata dei cambi fissi; e non le facevano difetto i marchi (li stampava). Ma l’11 settembre la Germania abbandonò l’Italia al suo destino. Ciampi “era verde” (Amato). Svalutò la lira del 7% e resistette altri 3 giorni prima di accettare l’inevitabile. L’emorragia di riserve valutarie raggiunse il parossismo, poi improvvisamente finì il 16 settembre alle ore 17 quando chiusero i mercati e l’Italia uscì dallo Sme.

La difesa del cambio, pur se inefficiente, non fu inutile: consentì l’accordo del 31 luglio, essenziale per una svalutazione non inflazionistica. Ma la contropartita promessa ai sindacati era che non avremmo svalutato. Perciò farlo subito non si poteva. Se l’inganno (a fin di bene) fosse stato troppo plateale, irridente, la politica dei redditi rischiava di non tenere. L’accordo fu invece un architrave della “svalutazione virtuosa”, che si realizzò come da manuale.

Contrariamente a quanto accadde nel 2011-15, la svalutazione del 1992 fu il punto di partenza di una straordinaria ripresa del Paese. Negli anni successivi l’Italia uscì da una situazione difficilissima, col deficit al 12% del Pil, debito pubblico a 105%, debito estero al 30%, bilancia commerciale in rosso, ecc. L’inflazione scese dal 5,5% (sett. 1992) al 4,6% (1993), al 4% (1994). Quanto alle riserve, la perdita di valore per lo Stato italiano fu pari a “solo” il 23% delle riserve vendute: pari cioè a quanto esse si svalutarono, alla fine dei giochi. Si poteva far meglio; ma anche peggio (nel 2011-15 si è fatto molto ma molto peggio secondo tutti gli indicatori economici e sociali che conosco). La banca d’Italia fece diversi errori, ma fra questi non quello di difendere il cambio il tempo necessario per preparare una svalutazione da manuale. L’errore n.1 fu come difese il cambio (tutto con le riserve, zero con gli annunci, pochissimo e tardi con i tassi): Ciampi da ragazzo non giocava a poker. L’errore n.2 fu non uscire dallo Sme all’inizio di settembre.

Secondo Lorenzo Bini Smaghi: “Quelli che rimpiangono la lira o le moneta nazionali dovrebbero ricordarsi di quegli anni e come la sovranità monetaria e fiscale era assai limitata… mentre i mercati reagivano con enormi overshooting e instabilità finanziaria”. Senza essere un sovranista, osservo che è paradossale criticare l’assetto del 92 perché “la sovranità monetaria e fiscale era assai limitata”: lo era sempre meno di ora! Quanto all’instabilità, ora che non è più assorbita dai mercati finanziari, si scarica tutta sui mercati reali e l’occupazione: meglio per i rentiers, un po’ seccante per i lavoratori. Infine, i limiti dell’epoca alla sovranità monetaria e fiscale creati dalla Germania, come pure i tassi d’interesse a volte elevati, dipendevano unicamente dai cambi fissi: un accordo liberamente sottoscritto e in qualsiasi momento revocabile (o riformulabile, su nuove parità). Perciò il “potere di ricatto” di entità estere era infinitamente inferiore a quello subìto p.es. da Tsipras nel 2015. Quando “la speculazione indotta dalla crisi valutaria fece salire [ottobre 1992] i tassi sul debito pubblico oltre la doppia cifra…” (Recanatesi), il problema rientrò in poche settimane; perché allora avevamo un lender of last resort (Bankitalia) che si faceva rispettare dai mercati, non l’assetto liberista e di laissez faire attuale.

Quanto alla Germania, lo storico Harold James ha scoperto che il rifiuto di onorare gli impegni sui cambi era stato già deciso ai massimi livelli alla nascita dello Sme (1978); ma i tedeschi tennero segreta la decisione per vincolare gli altri paesi. La doppiezza tedesca del 1978-92 è gravissima, perché l’euro è figlio dello Sme: “una moneta unica costruita senza la solidarietà richiesta già da un “buon” regime di cambi fissi genera un dualismo economico fra zone forti e zone deboli” (La Malfa). Nel 1980-98, quando la competitività si squilibrava: o il paese in surplus stampava moneta e alzava il suo livello dei prezzi; o si aggiustava il cambio; e la vita continuava. Mentre oggi il rifiuto – non solo tedesco – di espandere la domanda, alzare i prezzi, e riequilibrare la competitività, ha effetti drammatici, potenzialmente illimitati, sugli altri paesi.

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