Il Ceta fa crescere l’export in Canada, ma i dati disponibili a quasi un anno dall’applicazione in forma provvisoria dell’accordo di libero scambio tra Ue e Canada, non accorciano le distanze tra le forze di maggioranza del Governo Conte-bis e non bastano a spazzare via i dubbi (di parte dell’esecutivo, ma anche di associazioni e organizzazioni internazionali), sugli effetti concreti della ratifica da parte del nostro Paese dell’accordo che prevede l’abolizione della quasi totalità dei dazi doganali. Conseguenze che riguardano sia la tutela del made in Italy sia la sicurezza alimentare dei prodotti che arrivano dal Paese americano. I dati sull’export italiano in Canada sono quelli elaborati dal Centro Studi di Sace (Gruppo Cdp) e dicono che da gennaio a maggio 2019 è cresciuto di quasi il 13% rispetto allo stesso periodo del 2018. Si tratta di oltre 4 miliardi di euro. Resta il fatto che, senza l’approvazione all’unanimità da parte di tutti i Parlamenti dell’Ue, il Ceta non potrà essere definitivamente operativo e la questione della ratifica, tornata in agenda politica, porta con sé vecchi nodi mai sciolti e una vera e propria diatriba tra i sostenitori e i detrattori del trattato.

LE RAGIONI DEL NO ALLA RATIFICA – Tra questi i pentastellati, che condividono alcune perplessità già manifestate, ad esempio, da Greenpeace e l’Institute for Agriculture and Trade Policy, ma anche da Coldiretti (“così la Ue legittima la pirateria alimentare”), sul fatto che il Canada abbia standard inferiori rispetto a quelli europei e un’economia agricola che dipende in modo più massiccio da additivi chimici e ogm. Basti pensare che nel 2016 le autorità canadesi hanno autorizzato il commercio del salmone ogm, il primo approvato per il consumo umano e diverse tonnellate di filetti sono state vendute senza alcuna etichettatura.

I DATI SUGLI EFFETTI DEL CETA – Poi c’è l’altra faccia della medaglia. A quasi un anno dall’applicazione (per circa il 90 per cento) del Ceta, oggi per ogni prodotto canadese che entra in Italia, ce ne sono tre nostrani che vengono esportati nel Paese del Nord America. Un risultato dovuto principalmente ad alcuni settori. La meccanica strumentale, primo settore di esportazione, registra un aumento di oltre il 21 per cento, mentre la farmaceutica sfiora il 40 per cento. E se l’export dei metalli registra più del 30 per cento, anche se con percentuali più basse, vanno bene anche i settori degli alimentari e delle bevande (+1,6%) e tessile e abbigliamento (+5,7%), che sono da anni in costante crescita.

LE AZIENDE INTERESSATE – Sono circa 13mila le aziende italiane che esportano in Canada e se il dato sul valore dei beni arrivati Oltreoceano nel 2017 è in crescita del +4,4%, il Sace prevede un aumento del 4,6% l’anno, tra 2019 e 2022. Come ricordato dal Centro studi, con il Ceta l’Italia ha ottenuto 41 denominazioni protette, più della Francia, quasi il doppio della Spagna e il quadruplo della Germania. Ma sono sempre 41 su circa 300 prodotti Dop e Igp, troppo poche per i detrattori dell’accordo. A riguardo, in una recente intervista a Il Sole 24 Ore, il senior economist di Sace, Pierluigi Ciabattoni, ha sottolineato che da parte del Canada c’è un’apertura ad allargare il numero delle indicazioni geografiche garantite nella prima stesura del trattato. Una possibilità offerta dall’approvazione della nuova normativa che permette di aumentare il numero delle registrazioni protette previa domanda da parte dei soggetti interessati.

LA POLEMICA POLITICA – Così la neo ministra delle Politiche agricole, Teresa Bellanova, ha manifestato la volontà di lavorare “perché si arrivi alla ratifica con l’obiettivo di dare competitività al Sistema Italia”, anche in considerazione del fatto che hanno già firmato Spagna, Francia e altri 14 Paesi Europei. Eppure gli stessi dati non hanno convinto i senatori del M5s in commissione Agricoltura, convinti che la ratifica danneggi “pesantemente il made in Italy e tutta la filiera nostrana”. E se il senatore Michele Giarrusso è passato all’attacco (“La battaglia contro il Ceta è una battaglia identitaria del Movimento 5 Stelle. Mi pare che qualcuno non ha capito nulla e vuole fare saltare il governo prima che nasca”), il presidente Commissione Agricoltura della Camera Filippo Gallinella, che ha chiesto un confronto interno alla maggioranza prima di prendere posizione su “temi sensibili” come il Ceta. D’altro canto, l’ex governo alla guida del Paese aveva già in passato dichiarato di non voler ratificare l’accordo, ritenuto contrario agli interessi nazionali. Anzi, nel corso di un intervento durante un’assemblea di Coldiretti, l’allora vice premier Di Maio, oggi ministro degli Esteri con competenze proprio sul commercio estero e sul made in Italy, aveva persino minacciato la sospensione dei funzionari che lo avessero difeso.

LE RAGIONI DEI DETRATTORI – Durante il primo Governo Conte, il ministro alle Politiche agricole, Gian Marco Centinaio, aveva spiegato che il no del Carroccio era dovuto proprio alla questione della tutela parziale dei nostri prodotti. Come sottolineato da Coldiretti su 292 denominazioni italiane riconosciute, sono 250 quelle che non godono di alcuna tutela. Ma i dubbi riguardano anche altri aspetti. Come la controversa questione della clausola che permette alle aziende basate in Canada di sfidare direttamente le norme sulla sicurezza degli alimenti e i regolamenti agricoli dell’Ue e nazionali, facendo causa a uno Stato davanti a un arbitrato internazionale, sulla base di presunte discriminazioni o perdita di possibili profitti e di ricevere per questo compensazioni. Un esempio? Il grano duro che importiamo in grandi quantità dal Canada e con cui viene fatta la pasta prodotta in Italia. Di fatto, già nei mesi scorsi l’Italia è finita nel mirino della CropLife (l’associazione internazionale delle aziende agrochimiche) per le misure di etichettatura di origine del grano, la diffidenza verso il glifosato e il divieto di Ogm. In un dossier scritto insieme alla Camera di Commercio canadese, l’associazione ha indicato gli ostacoli al libero commercio che le multinazionali del settore vogliono rimuovere proprio attraverso il comitato per la cooperazione regolatoria istituito dal Ceta. Il pericolo concreto, per Greenpeace, è che questo sistema previsto dal trattato alimenti una corsa verso il basso. Tra le norme a rischio, ci sarebbero proprio le restrizioni sull’uso di organismi geneticamente modificati, di ormoni della crescita e di sostanze chimiche antimicrobiche per il ‘lavaggio’ della carne.

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