Stiamo troppo seduti. Quando possiamo muoverci facciamo di tutto per prendere la macchina. Parcheggiamo il più vicino possibile alla destinazione – un ristorante, l’ufficio, la palestra – perché quella distanza è tempo perso, non quella che ci fa esplorare il mondo. Sbagliato: è tempo guadagnato, sottratto alla routine, che fa vivere il privilegio di avere un corpo e di poterlo muovere. Di esplorare e cambiare la prospettiva, sentire quella fatica fisica dimenticata. Siamo “Nati per camminare” (Ediciclo) scrive Alessandra Beltrame in un libro che soprattutto lo dimostra. Arriva dopo “Io cammino da sola”, dove raccontava la felicità di uscire da una vita segnata da “orari prestabiliti, scrivanie, rigidità, ripetizioni di gesti e noiose abitudini“. Quella riscoperta di un cammino volontario e consapevole è stato il suo superpotere che, da ex pigra, ha tirato fuori con costanza.

Il momento era quello giusto. Lei, come tanti, si era dimenticata cosa volesse dire camminare. Le scocciava fare i pochi metri che la separavano dall’ingresso della Mondadori, dove lavorava. Poi, a un certo punto, salta il tappo. Capisce che il mondo dalle “proporzioni perfette” che si era costruita le stava stretto. Era fatto di uscite, aperitivi, un bel lavoro. Ma si sentiva affranta, delusa, menomata. Col reflusso da stress. Una “mosca in un barattolo” che “passa le sue giornate nel bussolotto sbattendo da una parte e dell’altra per aspettare di spegnersi”. Impaludata. Dove rimaneva in attesa di quello che non dipendeva da lei e che non arrivava. “Attendi sul ciglio che qualcuno passi, che qualcuno ti chiami. Che qualcuno si ricordi di te”. Era stanca degli amici presi da loro stessi, tra “lavoro, ristorante, cinema, shopping, mare, vacanza esotica, montagna addomesticata”. Voleva uscire dalla gabbia, era sfinita, ma uscire era difficile. Allora, a quel punto, le scelte erano due: sdraiarsi sul fondo o riprendere a respirare dopo una persistente sensazione di soffoco. Ognuno ha una sua strategia, ce l’ha o la trova. Per Alessandra è una cosa: camminare.

Scopre che non farlo significa “non essere creativi, vivere nell’abitudine, ripetere gli stessi gesti anche se non piacciono più, accettare quello che è sbagliato“. E allora scrive un libro che è fatto dei quattro elementi – di fuoco, terra, acqua e aria -, mai immobili e sempre in divenire. Racconta di avere attraversato sulle sue gambe la Sicilia e il Nord Est e molto altro, accompagnata dal suo cane. Impara che sì, vive anche del piacere di seguirla, ma le sue fatiche devono essere rispettate. Può sfinirsi a macinare chilometri anche se i boschi, a differenza dell’asfalto, sono il suo ambiente. Scopre anche il piacere di camminare per chi non può, di usare i suoi piedi per sostituire quelli di chi ha una malattia che lo costringe a fermarsi.

E pure l’arte del flâneur, di quello che girovaga nella città, non nella natura, “tra la folla e per la via senza pregiudizi né direzione”, rende onore al cammino. Che sia in città o sui sentieri è un’azione che “fa paura perché smaschera. Perché è la forma più pura e consapevole per conoscere i luoghi”. Tant’è che “se i politici camminassero davvero, non solo per fare due passi da casa a Montecitorio, sarebbero più sinceri, riconoscerebbero le porcherie“. La materia ti si appiccica alle suole, il viaggio – anche urbano – entra dentro. E ci riempiamo di scuse per non farlo, senza contare che poi anche il corpo – il nostro battito – ci chiederà conto dell’immobilità cronica.

Durante è quello che conta, mai la meta. E c’è chi crede che il Cammino – di Santiago, soprattutto – lo facciano in tanti perché è di moda. Ma capita che chi lo dice “in verità non cammini, non lo faccia o non lo abbia mai fatto. E magari fosse di massa, perché “il cammino ti insegna a prendere e anche a lasciare. A vivere il momento. A non possedere, a cogliere l’attimo. Ti insegna ad accettare l’addio, l’arrivederci, la perdita e l’abbandono. Ti educa a non soffrire inutilmente, ma solo se ne vale la pena: perché la fatica è utile se porta a qualcosa”. Incluso quella di scalare una vetta, consumare la strada. Guardarci intorno con ritmi e intensità diverse, che non saranno mai uguali a se stesse. Danza e viandanza si assomigliano, dice l’autrice, e “ci sarà sempre qualcuno che si sposta. Così come il vento, che si alza e si alzerà sempre”. È la natura delle cose, come quella che ci spinge a guardare avanti, a fare un passo dietro l’altro. A fare quello per cui siamo nati: muoverci. Camminare.

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