Si chiamava Kim. Fu la prima cosa che mi disse. Lo conobbi a Trani. Mi trovavo poco oltre il principio di un lungo viaggio ch’era cominciato in Basilicata e sarebbe giunto a Trieste. L’intero incontro, e il mondo visionario, disperato e dolcissimo che mi costruì innanzi si esaurirono sulla piazza della cattedrale, in un pomeriggio assolato di vento bollente del 2007, l’anno degli incendi che lambirono la costa del Gargano e portarono le fiamme al mare.
Sedette sulla panchina dove stavo io. Per oltre un’ora fummo gli unici abitanti della piazza. Avrà avuto 35 o 36 anni, ma se per la stanchezza del viso e la profondità di alcune piccole rughe poteva dimostrare un decennio in più, per la foga del gesti e l’eloquio, come per la mescolanza di meraviglia e rassegnazione che facevano l’altalena nel suo monologo pareva un ragazzo. Mi rivolse la parola chiedendomi se amavo il mare, se conoscevo la Puglia, e come mi chiamavo. Gli risposi in ordine: amo il mare; conosco la Puglia, arrivo da lì, mia madre arriva da lì, i miei nonni materni arrivano da lì, ci apparteniamo anche se ci viviamo da lontano; mi chiamo Cristiano, e tu?, e passai la palla a lui. Ecco che mi disse “Kim”.
Da quel momento non s’interruppe più, fino a che dovetti salutarlo, mio malgrado, all’ora di cena. Volevo fare una doccia e rimettere mano al mare di parole che riempì di fronte a me, di fianco all’altro mare, quello Adriatico, quel giorno d’un blu sì profondo da lasciarti immaginare l’altra parte del mondo. Kim era uscito in quelle settimane dal “manicomio” di Bisceglie, uno degli ultimi ex ospedali psichiatrici a perdere quella connotazione. La Legge che prevedeva ciò era la 180 del 1978, la “legge Basaglia”, che dopo infinite proroghe arrivò a chiudere gli ultimi quattro ospedali privati soltanto nel 2010. Legge e giustizia si conoscono solo di nome. Fra questi ospedali v’era il “Don Uva” dove era stato “imprigionato” Kim, come diceva lui. Ora viveva con Eleonora, sua sorella più giovane, “bella lei… non come me…”.
La sera passai il tempo della cena ad annotare sul taccuino tutto ciò che riuscivo a ricordare del monologo di Kim. Disse che quel nome se l’era dato lui, “perché la vita è mia e anch’io lo sono”. Mi parlò di un posto. Si chiama “Alsiante sul mare”. Un piccolo paese di provincia, poche anime e tutte spostate di testa, diceva. “Però si vive bene. Poche strade, niente palazzoni né centri commerciali, anche perché poi chi ci va”. Ad Alsiante scorre un fiumiciattolo: si chiama “Oro”. Ha un corso abbastanza breve e le sponde sono ravvicinate un bel po’, ma il nome secondo Kim è azzeccato proprio per questi motivi.
Poi mi raccontò della ferrovia. E in quel momento gli occhi del ragazzo s’erano fatti cangianti. E’ vecchia e oramai non ci passa più un treno, però è una favola, poetica, s’incunea in mezzo agli alberi, e per un breve tratto fiancheggia il fiume, l’Oro, dal finestrino si doveva godere di una vista straordinaria. Mi parlò della stazione con parole struggenti, romantiche. Ecco, disse Kim: “Io lavoravo lì, all’epoca dei treni”. Si era così innamorato di quel luogo, che aveva proposto al superiore di acquistare la stazione per andarci a vivere. Aveva sempre sognato di avere una stazione tutta sua! Però Mario, il capostazione, gli disse di lasciar perdere…
Sembrava tutto folle e magnifico. Di fronte a noi il caldo rimbombava sul tappeto del mare. Ebbi poco spazio per inserirmi nel discorso, ma la verità è che non mi interessava controbattere, ero affamato di sapere di quel mondo. Allo stesso modo, avrei voluto conoscere il suo passato. Di quanti anni fosse stato derubato dalla “prigionia”.
Ma non dovetti intromettermi per venire a sapere qualcosa di molto più irrimediabile. Ero già in piedi quando mi spiegò che una delle sue attività maggiori era inventare parole, parole che gli piacevano. Ne pronunciò due, che riuscii ad annotare sul taccuino. “Alberopoli”, che è una città fatta tutta solo di alberi. E “mappabolario”, che è una palla grande dieci volte la sua testa che gira su di un asse e ci sono scritte sopra le parole più belle del mondo vicino al posto dove sono nate, e poi un piccolo disegno che le spiega, perché spiegare le parole con altre parole poi non si capisce un cazzo, parola di Kim. A quel punto lo dovetti bloccare per salutarlo. Mi disse di scusarlo per tutte quelle chiacchiere ma aveva una vita da reinventare, e quello che mi aveva raccontato era l’inizio del mondo nel quale aveva vissuto e che lo aveva tenuto impegnato negli ultimi 25 anni. Come una prima pagina di romanzo. In una frase ancora mi raccontò poi di una certa Raffaella, che aveva perso di vista quando era stato ricoverato. Quella pagina avrebbe dovuto chiamarsi “Amore”. Gli strinsi la mano, lui ricambiò forte, prima di lasciare la presa. La vita è solo quella tua, fu l’ultima cosa che disse sotto la cattedrale, se ti lasci vivere quella degli altri, è come non esserci mai stato.