Gentile dirigente scolastica,
sono un insegnante e le scrivo in merito alla sua controversa decisione di escludere dalle lezioni – motu proprio – un allievo 13enne a causa del fatto che il giovanotto si è presentato a scuola con una cresta di dread blu elettrico. Lei ha deciso che, poiché violava il dress code previsto dal Patto di Corresponsabilità firmato dai genitori a causa della sua certamente originale acconciatura, non gli sarebbe stato permesso di accedere alle lezioni, nella sua classe di appartenenza, nell’Istituto Comprensivo di Scampia che lei dirige, almeno fino a quando la colpevole acconciatura non fosse stata tagliata.
Nella sua scuola, ha dichiarato, non sono permesse treccine, jeans strappati, ombelichi in vista e via così. Né agli allievi e, a quanto pare, neanche agli insegnanti. La famiglia del ragazzo l’ha presa male e ne è nato un gran polverone mediatico, fin sui social.
Volevo intanto esprimerle tutta la mia solidarietà; ma non per le sue decisioni, quanto per il fatto che da tanti anni dirige una scuola probabilmente “difficile”, a Scampia, certamente più problematica di quella in cui lavoro io, a Treviso, nel ricco Nord Est. E la prego di estendere la mia solidarietà a tutti i colleghi che condividono questo suo impegno. Detto questo, però, mi lasci esprimere tutto il mio sbigottimento non solo per le sue decisioni, ma anche per le argomentazioni, invero zoppicanti e persino paradossali, con cui sta provando a difenderle.
Intanto lei dovrebbe spiegarci perché crede che un regolamento scolastico possa essere una fonte legislativa. Un regolamento scolastico è semplicemente una serie di regole condivise, messe lì per permettere al meglio il funzionamento di una scuola e la convivenza di tutti quelli che ci lavorano e che la frequentano, nel rispetto delle leggi e delle norme (e dei diritti) stabiliti dalla Repubblica.
Non basta scrivere in un regolamento che tale o talaltra cosa è vietata per mutare l’orizzonte dei diritti di tutti i cittadini che fanno parte di quella comunità. A quelli ha già pensato la Costituzione: tutto ciò, mi duole farglielo sapere, non è a disposizione di questo o quel dirigente, o Consiglio di Istituto. I dirigenti, non lo dimentichi, non sono lì per farsi le leggi che aggradano loro, ma per applicare quelle che già ci sono.
Lei parla di dress code, ma si dimentica di argomentare per quale ragione avere un jeans strappato, o un trucco pesante, o dei dread colorati dovrebbe essere considerato inopportuno. Me lo spiega? Perché offende il suo gusto personale? Perché ritiene che, per fare il medico, l’ingegnere, il politico, l’insegnante o il preside, occorra imparare a vestirsi in giacca e cravatta? Lei si farebbe operare da un grande chirurgo in jeans strappati (ne conosco più di qualcuno) o da un principiante in giacca e cravatta?
Io vado a scuola tutti i giorni con i jeans strappati, porto al pollice destro un anello quadrato a forma di bullone e se non ho dread è solo perché sono tristemente calvo, eppure credo di essere un bravo insegnante e certamente potrei definirmi un serissimo letterato. Posso provarle quanto affermo, e può sincerarsene di persona, chiedendo di me a Google. Io da più di 30 anni insegno ai miei ragazzi la letteratura, la poesia, la storia e la Costituzione, non come debbano vestirsi. E poi perché crede, visto che lo afferma, che per decidere come vestirsi sia necessaria la maggiore età? Intende dire che, se avesse 18 anni, il povero allievo potrebbe venire a scuola vestito come gli pare, anche con la cresta arancione? E allora il dress code che fine fa?
Quando poi afferma che “dietro ogni regola c’è un valore formativo” sta dicendo una solenne corbelleria. Ovviamente dipende dalla regola e da come sarà applicata. C’erano, per esempio, e ci sono regole e dress code anche in certe prigioni e certamente servivano e servono a educare i reclusi. Ma non mi pare questo il caso di una scuola pubblica, che deve invece educare alla libertà, alla responsabilità e all’autonomia.
Il modo di vestirsi di ognuno di noi, quando non risulti evidentemente offensivo per l’altrui pudore, è libero, è un modo per esprimere la nostra personalità e non c’è proprio nulla di spudorato, né in qualche treccina blu, né in un bermuda, né in un jeans strappato e neanche in un trucco “pesante” o in un ombelico scoperto. E poi mi dica, sulla base di quali dati obiettivi e condivisi lei distingue un “trucco pesante” da uno “leggero”? E perché le treccine di un’allieva di colore vanno bene (ha detto anche questo) e quelle di un allievo italiano no? Noialtri treccine nisba? Dobbiamo prendere prima la cittadinanza giamaicana?
Leggo poi che lei ha allontanato dalla classe il ragazzo, impedendogli di frequentare regolarmente le lezioni e mandandolo (non so se con l’approvazione del Consiglio di Classe o meno) a stare in laboratorio. Bene, lei sta privando quel ragazzo di un diritto sacrosanto, che in questa Repubblica è anche un obbligo, quello all’istruzione. Chi ridarà indietro a quell’allievo tutte le ore disciplinari che sta perdendo a causa della sua ridicola decisione? Perché, a causa della sua acconciatura, lui ha perso il diritto che tutti i suoi compagni di classe hanno e cioè quello di ascoltare le spiegazioni dei suoi insegnanti? Lei gli sta sottraendo tempo-scuola e lo sta facendo arbitrariamente sulla base di norme che non hanno, in questo caso, legittimità alcuna.
Lei addirittura afferma: “mi rivolgerò all’autorità garante per i minori. Denuncerò tutto questo vergognoso speculare sulla sorte di questo allievo a cui io voglio dare un futuro diverso dal background familiare”. Vuol dire che se dei genitori permettono al figlio di farsi i capelli arcobaleno lei può chiedere che venga loro sottratta la patria potestà? Lo dice seriamente?
Se a Roma c’è un ministro, credo che sia obbligo suo intervenire – e presto – rimettendo quel 13enne al suo posto, cioè nella sua classe con i suoi compagni, oggi, non quando avrà tagliato i suoi dread, come pretende lei. Ha ragione il ministro Fioramonti, gentile dirigente, quando dice che la scuola dovrebbe essere non solo seria, ma anche divertente, accogliente, capace di trasferire agli allievi non solo le sue benedette regole, ma anche la conoscenza dei propri diritti, delle contraddizioni della realtà e a fornire loro le chiavi per costruirsi un futuro degno di questo nome. E soprattutto la voglia e la motivazione per farlo. Con o senza treccine blu.
Davvero crede che per risolvere i problemi dei ragazzi di Scampia occorra partire da come si vestono e non da come e cosa pensano, dai valori in cui credono? Lei cita Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Rita Levi Montalcini. Certo, non avevano le treccine blu, ma mi dia fiducia: se li ricordiamo, non è certo per le loro cravatte, né per i loro tailleur.